Sulla natura e l’impiego dei pharmaka

di Ida Li Vigni

“Tutto ciò che modifica lo stato presente è farmaco; e tutte le sostanze che hanno molta forza sono modificatrici … Al malato conviene qualsiasi cambiamento al di fuori dello stato presente.” (Ippocrate, De locis in homine, ed. Littré VI)

“Chiamiamo farmaco tutto ciò che, in qualche modo, può alterare la nostra natura, così come, a mio avviso, chiamiamo nutrimento tutto ciò che aumenta la nostra sostanza.” (Galeno, XI)

“Farmaco – Sostanza dotata di virtù terapeutiche.” (Zingarelli minore)

“Farmaco – Qualsiasi sostanza che abbia la proprietà di curare le malattie.” (Dizionario di Italiano, a cura di V. Coletti, Giunti-Multimedia)

Pompeo Batoni

Pompeo Batoni, Achille e il centauro Chirone

Come è noto in greco pharmakon ha il doppio significato di rimedio e di veleno o tossico e si oppone ad alimento, da intendersi come la sostanza che nutre e sostiene, laddove il farmaco sconvolge con la sua violenza. Dati questi assunti, occorre però cercare di capire come nella medicina classica, greca e latina, si strutturi la conoscenza del farmaco e il suo utilizzo, ovvero quali considerazioni portino i diversi medici a formulare le loro tesi sull’utilizzo dei rimedi semplici o complessi.

Due sono i punti di partenza – uno mitico, legato alla figura del centauro Chirone, ed un altro empirico, fondato sull’osservazione degli effetti dei rimedi -, entrambi collegati perché appunto ruotanti attorno alla presenza del veleno. Del saggio Chirone, il più giusto dei Centauri, i miti ci attestano il profondo legame con l’ambigua natura del pharmakon, di cui la sua doppia natura è in qualche modo un primo avvertimento. Infatti, la sua parte animale richiama la forza della natura, mentre la parte umana rappresenta l’azione della ragione che consente di dominare e utilizzare la natura stessa. Ma questo di per sé non è sufficiente; è la morte del saggio centauro a illuminarci. Chirone non è un medico in senso stretto; egli conosce però le proprietà delle piante e le utilizza per alleviare le sofferenze degli uomini, prestandosi a trasmettere le sue conoscenze a quei predestinati cui è toccato in sorte di praticare l’arte medica, primo fra tutti quell’Asclepio, che la tradizione vuole essere stato il padre della medicina[1]. E tuttavia il profondo conoscitore dei rimedi vegetali muore a causa di una freccia avvelenata, scagliata da un altro celebre suo allievo, Eracle. A nulla vale la sua arte a strapparlo agli atroci dolori, tanto che Zeus accoglie il suo desiderio di morire, liberandolo dall’immortalità. Come nel caso di Asclepio, che col sangue della Medusa resuscita i morti, il veleno non ha origine vegetale, ma animale (sangue-serpente), poiché la freccia era stata intinta nel sangue dell’Idra, il mostro serpentiforme che rimanda ai capelli-serpenti della Medusa.

Questa morte ha molto da insegnare a chi vuole avvalersi dei farmaci per guarire. In primo luogo suggerisce con l’opposizione piante-animali una diversa forza e qualità di azione del rimedio ricavabile da esse, obbligando il medico ad interrogarsi sulla natura di ogni farmaco; in secondo luogo afferma in modo incontrovertibile la doppia natura del farmaco, a un tempo rimedio e tossico. Ciò che il mito contiene in nuce, diventa percorso conoscitivo nel momento in cui l’esperienza sensitiva diventa episteme[2], ovvero nel momento in cui dall’esperienza empirica si ricavano con l’ausilio della ragione dati certi. Così dall’uso omerico di pharmaka[3], termine utilizzato, a seconda dell’aggettivo che lo accompagna, per indicare prodotti sia benefici che dannosi, il che comunque comporta l’idea di una sostanza che introdotta nel corpo produce un mutamento, si passa, allorché l’arte medica si incontra con la filosofia, alla riflessione sulla natura tanto del pharmakon quanto su quella della modificazione da questo indotta e su quella del paziente cui il rimedio viene somministrato.

L’assunto epistemologico per cui la medicina deve non solo conoscere a fondo la natura di ogni farmaco, le sue proprietà e i suoi effetti, ma anche la natura e le proprietà del corpo cui viene somministrato emerge chiaramente nel Fedro di Platone laddove viene instaurata una fondamentale analogia fra medicina e retorica[4]. Si tratta di tecniche che come fine precipuo hanno quello di interrogarsi per determinare in primo luogo “se l’oggetto di cui vogliamo diventare esperti e capaci di rendere tali gli altri è semplice o composto. In secondo luogo, se esso è  semplice, bisogna indagare quale potenza abbia di natura ad agire e su che, o quale capacità abbia ad essere influenzato e da che; se invece è composto, dopo aver enumerato le sue parti, bisogna considerare ciascuna parte come nel caso fosse semplice e vedere per ciascuna con quale parte abbia naturale capacità di agire e su che o quale parte abbia naturale capacità di essere influenzata in che e da che”[5]. Ciò significa anche, come concordano Socrate e Fedro, che il medico, oltre a conoscere ciò che è in grado di scaldare o raffreddare, fare evacuare o fare vomitare, deve conoscere molto bene i pazienti per decidere di trattarli in un certo modo, in determinati casi e in precisa misura. Chiede Socrate a Fedro: “Ebbene, dimmi, se qualcuno si presentasse dal tuo amico Eurissimaco o da suo padre Acumeno  e gli dicesse “Io so applicare certi trattamenti al corpo in modo da scaldarlo, se voglio, o da raffreddarlo, o se mi pare emetici e purganti, e tutte le altre cose del genere. Poiché so queste cose pretendo di essere un medico e di poter rendere medico un altro cui io confidi la mia conoscenza di questi trattamenti”. Udendolo cosa credi che risponderebbero?” E Fedro risponde: “Non gli chiederebbero altro che se sa anche a quale tipi di pazienti debba somministrarli e quando debba applicare ciascuno di questi e in che misura”.[6] Un’asserzione che a distanza di qualche secolo viene ripresa dal grande medico Galeno che così precisa la riflessione platonica: “Conoscere esattamente le facoltà dei farmaci differisce molto dal conoscere in generale; poiché il semplice conoscere consiste nel sapere se il farmaco per natura dissecca, umidifica, raffredda o riscalda il nostro corpo; ma la conoscenza esatta vi aggiunge la conoscenza della quantità delle possibilità”.[7]

Il passo galenico è il punto di arrivo di una lunga riflessione epistemologica e metodologica della medicina classica sul rapporto quantità/qualità che aveva avuto il suo avvio con Ippocrate e la sua scuola e che è di vitale importanza per la terapeutica. Gli ippocratici per risolvere il problema del come deve intervenire il medico avevano fatto proprio il criterio del kairos, letteralmente il conveniente, l’opportuno, ovvero la giusta misura, ma anche il giusto tempo, avendo il termine kairos un’estensione di significato che va dal senso di misura a quello di tempo, dimostrando chiaramente di aver presente la relatività degli effetti dei farmaci e della terapia. Il criterio del kairos, quindi, consente di conciliare il mondo delle qualità con quello della quantità, dal momento che l’atto terapeutico e il riconoscimento del rimedio adatto non dipendono soltanto dalla natura delle cose, dall’andamento della malattia e dalla natura del paziente, ma anche dal giudizio del medico e dall’immediatezza del suo intervento. O, per dirla con Celso quando ricorda Ippocrate, si tratta del principio del “doversi nel medicare aver riguardo e alle cose generali e alle individuali”.[8] Il seguente passo di Ippocrate è illuminante circa il dilemma, tutt’altro che paralizzante, che si pone al medico greco o latino ogni qualvolta si appresta a prescrivere un rimedio e merita di essere interamente riportato: “Conosciamo la natura diversificata dei farmaci evacuanti, in base alla quale essi producono tale o tal altro effetto; poiché chiaramente non tutto conviene, ma alcuni convengono in un caso, altri in un altro. Vi sono ancora differenze che risultano dalla somministrazione tempestiva o ritardata; vi sono manipolazioni come disseccare, pestare, cuocere. Ometto molte altre osservazioni dello stesso genere: così quale dose per ciascuno, in quale malattia, in quale periodo dell’anno, l’età, le abitudini del corpo, il regime, la stagione dell’anno, quale ne sia il carattere, come essa sia, come proceda e altre simili cose”.[9] Nell’utilizzazione dei rimedi, lo sanno benissimo i medici  greci e latini, non vale l’automatismo di causa ed effetto, né l’arte medica può ridursi a un sistema di conoscenze rigidamente impostato su dati statistici e ricavati logici. Lo illustra chiaramente Rufo di Efeso quando, evidenziando come un rimedio (nello specifico un purgante) non abbia su tutti i pazienti lo stesso effetto, conclude: “… nessuna sostanza ha una proprietà talmente costante che il medico possa includerla in categorie sempre identiche”.[10] E se è vero che col passare dei secoli si ha l’impressione che la materia medica, intesa come prontuario di rimedi giocato sull’elencazione dei più diversi casi curabili con quel singolo pharmakon, abbia il sopravvento sull’osservazione e l’adattamento dello stesso e della terapia al singolo paziente, nell’antichità classica permane la consapevolezza della relatività dell’azione del pharmakon e della necessità di seguire il criterio della cura individualizzata, perché – come dice ancora Celso – la medicina deve sì partire dal generale, ma per scendere nel particolare. Così, l’autore ippocratico de I luoghi nell’uomo dichiara: “… la medicina non fa sempre la stessa cosa in questo istante e subito dopo … essa agisce in maniera opposta nello stesso individuo e … le stesse cose sono opposte a se stesse”[11]. Proprio per questo, proprio perché l’universo della natura è un intreccio complessissimo di relazioni non traducibile in un meccanicistico rapporto di causa-effetto, bisogna affidarsi al kairos, che consente alla conoscenza medica di modellarsi in base alla necessità, ovvero di non affidarsi a verità generali certe, ma a valutazioni dinamiche che consentono di confrontare i diversi modi di agire del pharmakon con i diversi successivi momenti della malattia e le variabili condizioni (patologiche, ambientali, psicologiche …) del paziente. Per citare sempre la scuola ippocratica: “La medicina ha poco tempo per agire; chi lo comprende ha in ciò un principio fisso e sa quali siano le realtà e le non realtà che costituiscono il kairos che si deve conoscere in medicina: cioè che i purganti diventano non purganti e che gli altri farmaci sono contrari e i più contrari non sono i più contrari”.[12]

Il principio del kairos consente quindi al medico, posto di fronte alla consapevolezza della relativa applicabilità del criterio di causa-effetto, di intervenire terapeuticamente senza affidarsi ciecamente al medicamento, ma valutando in ogni momento della cura le alterazioni che la sostanza induce sul paziente anche e soprattutto in relazione all’evolversi della malattia. Oltre alla quantità e alla qualità il medico deve quindi considerare anche il modo di agire, avendo ben chiaro che esso muta costantemente anche in relazione ad una stessa sostanza. Ad aiutarlo in questa consapevolezza sono i filosofi naturalisti, come ad esempio Teofrasto che, parlando delle piante, dopo aver constatato che esse hanno qualità naturali che agiscono ora nel senso della causa-effetto ora in maniera opposta, conclude ponendo un obiettivo conoscitivo di non facile soluzione, identico a quella che deve porsi il medico ogni qualvolta fa ricorso ai pharmaka, ovvero “… sapere se quelle che producono lo stesso effetto lo fanno secondo una sola virtù che è comune a tutte o se gli stessi risultati non possano anche provenire da cause differenti”.[13]

La ricaduta operativa di queste osservazioni è di una portata rilevante, dal momento che si tratta di scegliere una strategia farmacologia tenendo conto del fatto che il rimedio opera sempre un cambiamento e che questo cambiamento non è determinabile con certezza. Proprio per superare questo ostacolo gli ippocratici, in nome dell’assunto che il medico deve aiutare il paziente a stare meglio senza nuocergli, sostengono la validità tanto del principio allopatico del contrariis contraria, quanto quello omeopatico del similiis similia[14]. Infatti: “I dolori si guariscono attraverso i loro contrari; ogni malattia ha qualcosa di specifico; così alle parti calde, divenute malate a causa del freddo, convengono riscaldanti e così via. Ma ecco un altro sistema: la malattia è prodotta da cose simili e, mediante l’assunzione di cose simili, il malato ritorna dalla condizione di malattia a quella di salute.”[15] Scegliere un farmaco significa quindi sapere come agisce ed è qui che il dibattito classico si arena, non per errate o mancanti premesse epistemologiche ma per la mancanza di strumenti,  dividendosi le scuole fra coloro che abbracciano la teoria umorale (c’è un’analogia necessaria fra medicamento e umore) e riconoscono l’esistenza di una forza attrattiva propria del rimedio specifico, coloro che dichiarano che il medicamento non attrae l’umore ma lo trasforma e infine quelli che preferiscono affidarsi all’empiria senza indagare sulla natura oscura dei rimedi. Un’impasse che spinge Galeno a dichiarare che i farmaci più che essere per se stessi aiuti sono mezzi di aiuto: “… non bisogna ignorare l’essenza dei farmaci e la loro utilità; poiché i farmaci non sono capaci di eliminare le cause di per sé soli, ma hanno bisogno che la natura venga loro in aiuto; essi danno, per così dire, l’impulso e l’avvio alla natura; quanto al resto la natura fa da sola.”[16]

Resta comunque significativo l’assunto di base secondo il quale è pharmakon tutto quello che è in grado di modificare lo stato presente del paziente ed è qui che si chiarisce non solo il significato, ma l’insegnamento ricavabili dagli eserga proposti. Basta infatti comparare le definizioni di Ippocrate e Galeno con quelle odierne, mutuate dal Littré, per renderci conto di quanto il dibattito sul farmaco si sia ridotto. Per Littrè, e siamo nell’Ottocento positivista, il farmaco è semplicemente un corpo semplice o composto che viene ingerito o applicato esteriormente a scopi curativi; per i dizionari attuali è una sostanza dotata di virtù terapeutiche. Nessun riferimento al modo di agire sul paziente, sulla sua azione modificatrice, ma solo il rimando alla sua finalizzazione: la cura. Per i grandi maestri dell’Antichità, invece, il perno della definizione è dato dall’inscindibile relazione fra l’uomo e il pharmakon, dalla consapevolezza, cioè, che qualsiasi sostanza venga somministrata a un paziente opera una trasformazione di stato mai prevedibile con certezza assoluta, ma solo con un certo grado di possibilità. Di conseguenza, se è doveroso fare ricorso ai pharmaka per curare, dato che “Al malato conviene qualsiasi cambiamento al di fuori dello stato presente”[17], è ancor più necessario osservare e considerare gli effetti sulla persona, in modo da intervenire con opportune correzioni terapeutiche laddove l’azione risulti contraddittoria o addirittura opposta al risultato supposto. E’ una consapevolezza che spiega la riluttanza di molti medici ad affidarsi ai rimedi, semplici o composti, e a preferire il ricorso all’alimento, l’altro polo della terapeutica classica, dal momento che il cibo sostiene il corpo agendo naturalmente, mentre il farmaco non è assimilabile, è per natura estraneo al corpo su cui agisce violentemente e dunque non pienamente controllabile. Una scelta che comunque non paralizza la medicina, ma piuttosto l’aiuta a mantenere una relazione più stretta fra medico e paziente, evitando che il rimedio abbia il sopravvento e diventi l’unico referente dell’atto terapeutico.


Note

[1] Il mito di Asclepio ci offre un’altra preziosa informazione sulla doppia natura del pharmakon. Stando ad una delle versioni, Asclepio aveva ricevuto da Atena due fiale contenenti il sangue della Gorgone Medusa. Col sangue estratto dal lato destro della Gorgone egli poteva provocare la morte, con quello estratto dal lato sinistro riusciva a resuscitare i morti. Il padre della medicina utilizza dunque, oltre all’arte della chirurgia appresa dal padre Apollo, due tipi di rimedi: i rimedi vegetali, operanti in armonia con le leggi di natura, e i rimedi animali (il sangue-veleno) a tal punto potenti da vincere la morte stessa, che per altro procurano.

[2] Cfr. Paolo Aldo Rossi, Metamorfosi dell’idea di natura, Erga, Genova, 1999: “La percezione sensoriale (l’aistesis) sta costituzionalmente alla base del processo co­noscitivo tipico dell’epi­steme, il percorso della scienza, il cammino che tende a costruire una conoscenza capace di garantire la propria validità, ossia un sapere in grado di “star fermo” (epistemi) nella verità”.

[3] Cfr. Odissea, IV, vv. 229-230: “… la terra dono di biade là produce moltissimi / farmaci, molti buoni, e misti con quelli molti mortali …”

[4] Platone, Fedro, 270 b., trad. di Piero Bucci, Laterza, Bari, 1998: “In entrambe le arti dobbiamo determinarne la natura; del corpo nell’una, dell’anima nell’altra se si vuole somministrare scientificamente, e non per pratica empirica, le medicine e la dieta del corpo, onde apportare sanità e forza, o ragionamenti e norme di condotta all’anima, onde infondere la persuasione o la virtù come si desidera”.

[5] Platone, Fedro, 270 d., ed. cit.

[6] Platone, Fedro, 268 b, ed. cit.

[7] Galeno, De compositione medicamentorum per genera, XIII, K 572.

[8] Celso, Della medicina, Proemio, Sansoni, Firenze, 1990.

[9] Ippocrate, Epidemiae, II, 3,2, ed. Littré V, Paris, 1839-1861.

[10] Rufo di Efeso, Opera, ed. C. Daremberg e E. Ruelle, Paris, 1879.

[11] Ippocrate, De locis in homine, ed. Littré VI.

[12] Ibidem.

[13] Teofrasto, Historia plantarum, IX, 19,4.

[14] Diversamente Galeno adotterà il principio del contrariis contraria da lui ritenuto un principio incontestabile di verità generale, chiudendo così la strada alla complementarità dei principi di cura.

[15] Ippocrate, De locis in homine, ed. Littré VI.

[16] Galeno, De optima secta ad Thrasybulum, ed. fr. C. Daremberg, Paris, 1856.

[17] Ippocrate, De locis in homine, ed. Littré VI.


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