O’ principe “haravec”: le “macchine anatomiche”

di Paolo Aldo Rossi

[…] a niuno rechi maraviglia, se in trattar de’ fatti del Principe di Sansevero noi molto ci distendiamo; perché essendo questi un nuovo Archimede dé nostri tempi, famoso per le tante maravigliose invenzioni, e scoverte di cui ha fatto, e fa tutt’ora partecipe il pubblico, dove di queste quì non avessimo dato qualche contezza, sarebbe stato sicuramente un uscir fuori alquanto del nostro assunto, ch’è di notar in ciascun Secolo gli avvanzamenti, e i progressi delle Arti, e delle Scienze tra’ nostri. Senza che essendo la vita di questo nobile, e dotto Cavaliere un perpetuo studio, a noi par, che quanto mai se ne dica, tutto sia poco; e sia giusta ragione, che in lodarlo giammai ci mostriamo parchi, potendo le lodi, che a lui giustamente si danno, servir di stimolo agli altri tutti dello stesso suo nobil’Oriente; affinché l’imitassero; e avessimo molti di costoro, che possono più, che altri contribuire alla gloria, e alla felicità non meno del nostro Monarca, che di tutta la Nazione. [1]

 macchine_anatomiche_2“L’Archimede dei nostri tempi” afferma Giangiuseppe Origlia Paolino, storico e accademico contemporaneo del VII Principe di Sansevero, per definire don Raimondo di Sangro, celebre e rinomato per le numerose invenzioni e scoperte nelle arti e nelle scienze tanto d’essere paragonato all’immenso genio siracusano a cui l’antichità aveva attribuito la frase “Ho trovato!”: il contrassegno dell’inventore.

Qualche anno prima, nel 1750, lo stesso Principe alla pagina 205-206 della Lettera Apologetica[2] scrive di se stesso:

… e per questo io non pretendo altro da voi, la quale tanto nelle poetiche cose valete, se non che unicamente il titolo Peruano di Haravec, il quale per qualche ragione, voi ben sapete, che può convenirmi.

E qui affida a una nota esplicativa di venti pagine (le parole che usa vengono pronunciate dalla Marchesa di S**** come artifizio letterario scritto sulla copertina) che inizia con:

Conviene all’Autore il nome di HARAVEC, che a rigorosamente disaminarne il significato, vale lo stesso che INVENTORE

e termina con il suo epitaffio, scritto mentre era ancora in vita:

VIR MIRUS, AD OMNIA NATUS, QUAECUMQUE AUDERET(che poi è quello che di lui dice Antonio Genovesi[3]:

… il signor Principe di Sansevero uomo fatto a tutte le cose grandi e meravigliose”[4] [aggiungendovi: Se egli non avesse il difetto di aver forte fantasia, per cui è portato qualche volta a credere cose poco verisimili].

Don Raimondo continuerà indefessamente a difendere il suo essere Haravec, “il Ritrovatore primiero”, il napoletano che per primo ebbe la fermezza di far conoscere, fuori dei confini, le sue innumerevoli scoperte:

… e dimostrandolo a giusta ragione inventore ne coglierò parimenti il piacere di confondere le straniere novelle di molte stupende cose, che si dicono altrove inventate, quando di esse qui fra di Noi fu egli il Ritrovatore primiero; e questo forse credasi il motivo più forte, ond’Io, per l’onore della Patria, e di lui condotta mi sono a dar, meglio che possa, qualche breve notizia di quelle, delle quali prima d’ogni altro Autor divenne, perciò che prima d’ogni altro ebbe la forza di ritrovarle.

Questa scrupolosa e precisa annotazione su i suoi ritrovamenti ci fa capire il suo essere inventore, ad es. del cannone leggerissimo da campagna di 30 libbre e dell’Archibuso a polvere e ad aria compressa, del palco mobile girevole, della Fortificazione a Molteplice Difesa Interna, della macchina idraulica “la quale con l’azione di due soli ordigni, simiglianti a due trombe, può risalir l’acqua a piacimento”, dei Teatri Pirotecnici con fuochi di forme e colori meravigliosi, del grande Oriolo automatico da lui pensato con statue mobili in cui vengono messi in gioco gli strumenti musicali e la testa mobile di un Dragone che batte le ore, del modo “d’imprimere ad una sola tirata di Torchio qualsivoglia figura … variamente colorate”, della fabbrica della latta, del drappo dipinto detto Pekin Partenopeo, delle borse di apocino, della stoffa impermeabile, della mensa automatica … e però non si parla di cose accademiche se non per accennare al lavoro, non dato alle stampe, sulla “vera cagione productrice della luce” o il “resuscitare i defunti”, cioè “richiamar a vita novella i già vicini a trapassare”.[5]

Egli non pretende di essere figura dell’aedo del mondo inca, detto “amauta”, il poeta funzionario dei corte, compositore di poesie conformi al rito e alle consuetudini, il rapsodo più strettamente religioso, ma al contrario il cantore più profano: l’haravec o harabicus, colui che si spostava continuamente di città in città, incurante delle regole, l’inventore immaginifico che parlava al popolo.

Le macchine anatomiche o circolatorie

Ma è poi mai vero che si tratti di un sistema venoso e arterioso naturale metallizzato o non piuttosto di una perfetta riproduzione artificiale, sul tipo della tecnica, applicata da Ercole Lelli (1702-1766) agli Scorticati dell’Istituto di Anatomia dell’Università di Bologna?[6]

Per la prima volta le “macchine anatomiche”, fatte costruire dal Principe Raimondo di Sangro di Sansevero intorno agli anni 1763-‘64, escono dalla “leggenda nera” ed entrano nella storia (purtroppo non della medicina, ma dell’arte o meglio delle tecniche artistiche). Alla domanda del Direttore del Museo di San Martino di Napoli la medicina, chiamata in causa, non risponde! Da un lato non può perché non ha l’autorizzazione e il permesso di sottoporre ad analisi cliniche, ma solo osservare de visu gli scheletri, cioè i congegni dissettori (sculture in ceroplastica o corpi metallizzati o pietrificati) e dall’altro l’ambiente medico offre delle spiegazioni che non chiariscono nulla del tipo: “… a detta della tradizione popolare il Principe usava intrugli misteriosi di sua invenzione sui corpi dei propri servi…” o addirittura fornisce chiarimenti che confondono ancor più il lettore, come il dottor Guglielmo Lutzen che in “Medicina nei secoli” del 1973 scrive:

In entrambe le ‘macchine’ appare inconsueta la dimensione del cuore nella sua totalità; tal caratteristica potrebbe derivare dall’eventuale pompaggio attraverso questo organo delle sostanze chimiche diffusesi quindi nell’intero corpo vasale, sempre che essa non debba attribuirsi ad alterazioni patologiche preesistenti alla morte dei due soggetti.[7]

E’ vero che Benedetto Croce aveva completato la leggenda popolare del Principe[8] dicendo che non è vero che le due strutture ossee siano mummificate, essendo soltanto dispositivi anatomici:

… e anche i due scheletri, che non sono poi corpi imbalsamati, ma “macchine anatomiche”: tutte cose che dovevano colpire le immaginazioni e far parlare di magia e di aiuti diabolici e di azioni delittuose da ateo che sfida il cielo,

ma è un’asserzione che si perde nelle fosche tinte delle pagine precedenti, dove il De Sangro ne esce come un diavolo:

Solo che per essere un gran signore, un principe, egli riuniva alle arti diaboliche capricci da tiranno, opere di sangue e atti di raffinata crudeltà Per lieve fallo, fece uccidere due suoi servi, un uomo e una donna, e imbalsamarne stranamente i corpi in modo che mostrassero nel loro interno tutti i visceri, le arterie e le vene, e li serbò in un armadio, e ancora si mostravano dal sagrestano in un angolo della chiesa; ammazzò altra volta nientemeno che sette cardinali, e delle loro ossa costruì sette seggiole, ricoprendone il fondo con la loro pelle …

Le cose migliorano quando il professor Paolo Capogrosso, primario di Cardiologia dell’ospedale “San Gennaro” di Napoli, con i dottori Domenico Galzerano e Paolo Tammaro – siamo al luglio del 2006 – effettua una “indagine” visiva sui due corpi, per cui sul “Corriere del Mezzogiorno” egli comunica all’intervistatore:

La sentenza è inappellabile: non si tratta di una forma di mummificazione, perché quel sistema arterioso e venoso, ancora ben visibile, non poteva appartenere ad un essere umano (che non avrebbe potuto vivere con quelle anomalie).

Quali anomalie si trovavano in quelle statue? Nel 2010 Paolo Capogrosso ad un Congresso di cardiologia tenutosi a Napoli dichiara:

C’era un chiaro errore nella ricostruzione del collegamento dei vasi al cuore, che in quel modo, se si fosse trattato di un uomo, non avrebbe mai potuto funzionare … [il Principe] per quelle che erano le conoscenze anatomiche del tempo, aveva fatto un ottimo lavoro.

Nonostante questa notizia (passata quasi del tutto inosservata!) e il fatto che Clara Miccinelli[9], già da trent’anni, avesse parlato di scheletri veri ricoperti e incastellati da una macchina circolatoria fatta in cera, resina, corde, filo di ferro … la leggenda ha continuato a diffondersi e ad accrescersi, tanto che la Cappella Sansevero con 150.000 visitatori all’anno è il museo più frequentato della città.

Questo avviene perché se, in ogni parte del mondo, le narrazioni fantastiche sono dure a morire, a Napoli essi sono immortali, specie quando, come nel caso del Principe di Sansevero, vi sono implicate tutte quelle componenti che rendono una storia così affascinante che la sua verità viene commisurata alla quantità di incredibili meraviglie ch’essa contiene (un redivivo Virgilio, Mago Partenopeo protettore dei suoi concittadini, ma temutissimo negromante e stregone)[10]. E’ chiaro che è (folcloristicamente e turisticamente) più soddisfacente avere Dracula il Vampiro che il Conte Vlad, uno dei tanti difensori delle frontiere cristianità, seppur grande impalatore.

Si veda, ad esempio, il sito http://www.alenapoli.org/perle/mna4.htm [11] che prende in considerazione le statue anatomiche o modelli circolatori a grandezza naturale di due scheletri su cui l’albero sanguigno (il sistema venoso e arterioso) è ricoperto e rivestito usando colori differenti, il blu e il rosso (come in qualunque atlante anatomico e questo darebbe da pensare!), in cui si legge:

I due corpi (maschile e femminile) scarnificati dell’involucro esterno mostrano l’intera struttura scheletrica completamente avviluppata del sistema venoso e arterioso… Il dilemma consiste nel fatto se i due corpi, dai quali sono stati ricavati i due esemplari anatomici, fossero o non fossero ancora vivi. I dubbi sono più che giustificati, in quanto tutti gli studiosi che hanno analizzato questi reperti anatomici a grandezza d’uomo, hanno sempre stabilito che per permettere alla sostanza fissativa che ha metallizzato, secondo il termine scientifico, i due apparati circolatori, la circolazione sanguigna doveva essere funzionante, quindi il cuore ancora pulsante. Solo in questo modo sarebbe stato possibile fissare l’intero sistema delle vene, delle arterie e dei più piccoli capillari… La sostanza utilizzata si dice che fosse sicuramente di tipo mercuriale o comunque sconosciuta, quindi iniettata nell’aorta ed entrando nella circolazione attiva ha poi fissato tutto il sistema prima che il cuore si arrestasse definitivamente. Ciò implicherebbe che i corpi sarebbero stati vivi al momento dell’esperimento, ma a questo punto, data la completezza dell’esperimento, è possibile che il cuore avrebbe pulsato fino all’ultimo? Possibile che tutto sarebbe andato bene, che non si sarebbero verificati incidenti come un infarto, una trombosi o un ictus, uno shock anafilattico che avrebbero arrestato il cuore prima che il processo si fosse ultimato e quindi portato al risultato di un esperimento incompleto? Questa ultima mia ipotesi personale, mi ha fatto quindi pensare che in realtà i due corpi fossero già morti, ma che un sistema ignoto (non dimentichiamo la favola dell’elisir) sia stato utilizzato per riattivare la circolazione dei cadaveri, capace di tenerle in funzione fino all’ultimo o come si voleva. Quale fosse stata questa pratica, rimane un mistero.

Chi scrive non è certamente un medico e non ha avuto una qualsivoglia frequentazione, anche straordinaria, con la storia della medicina. Il suo “dilemma” consiste nel fatto che i due corpi fossero ancora viventi o già morti e non che esistessero – anche solo per amore di mera discussione – delle “macchine anatomiche”, cioè delle sculture atte a rappresentare un modello del corpo umano, dando per certo che una sostanza fissativa “iniettata nell’aorta” facesse cessare di funzionare, ineluttabilmente, il cuore dopo aver fissato l’intero sistema circolatorio. Certo è che l’autore di questo brano di fisiologia fantastica propende verso la tesi meno feroce e violenta [“in realtà i due corpi fossero già morti”], ma chi spingeva il sangue con il liquido metallizzante se non il cuore? Chi premeva il fluido pietrificante sin nei più piccoli capillari se il muscolo cardiaco non era in funzione?

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La siringa a pistone di Pravaz – 1852 Per immettere in un organismo vivente un farmaco tramite un ago cavo

Quantomeno il principe non era un sadico omicida, ma un negromante che usava un elisir misterioso capace di riattivare la circolazione dei cadaveri “ad libitum” o “come Lui voleva”. Che il supposto liquido metallizzante non potesse venire usato sui corpi ancora in vita è evidente, non certo per questioni morali (è l’epoca del ‘divin marchese’ De Sade che di “sadiche porcate” ne ha escogitate tante[12]), ma per ragioni “medico-fisiche”, cioè non esiste ancora la siringa a pistone, usata come pompa (con un’azione intermittente aspirante e premente), che come faremo vedere è una invenzione del 1852 (ipodermica e endovenosa), per immettere in un organismo vivente un farmaco tramite un ago cavo e per di più in una arteria (dove il sangue scorre sotto pressione) capace per di più di pietrificare l’intero sistema circolatorio.[13]

L’organismo esibisce tutta una sequenza di barriere che un medicamento dovrà superare per arrivare integro al suo bersaglio; ci sono pareti impermeabili da percorrere, legioni di cellule assassine e sterminatrici opportunamente rintanate, masnade di enzimi, habitat acidissimi e un feroce e spietato sistema immunitario (linfociti, macrofagi, antigene etc…). Per il muscolo motore e la circolazione sanguigna (bersaglio da colpire) ci sono fondamentalmente due vie d’accesso: la prima è quella naturale (pillole, sciroppi, aerosol, supposte e pomate … che entrano dalla bocca, dal naso, dal retto e dalla pelle); la seconda è quella artificiale che fa uso di una siringa per iniettare il medicinale in modo intravascolare o endovascolare, intramuscolare, sottocutaneo o ipodermico con un ago incavato.

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Catetere a forza di gravità

L’idea di introdurre dei farmaci nel torrente circolatorio fu immaginata da Sir Cristopher Wren (1632-1723) e Daniel Johann Maior (1634-1693) che adoperarono una penna d’oca collegata ad un contenitore aperto pieno di un medicamento (senza fortuna per altro! I pazienti erano perlopiù animali di grossa taglia o cavalli). Il primo cateterismo venoso fu effettuato da Stephen Hales (1677-1761) su di una giumenta; l’infusione nella vena aveva luogo sfruttando la forza di gravità (non la pressione). Si usava anche un tubicino di platino o di oro immesso nella vena con un’incisione fatta con una lancetta e il recipiente era una sacca ben chiusa che era via via schiacciata (come la siringa a tasca che si usa per i dolci in cucina); un clistere insomma, ma sui vasi sanguigni! L’unica pompa capace di spingere il liquido fin nei capillari più sottili è il cuore pulsante e la cristallizzazione del letto vascolare è impossibile e per di più senza una siringa a pistone terminante con un ago cavo.

I primi impieghi della siringa sul vivente sono ascritti a Francis Rynd (1803-1861) per iniettare morfina in un tessuto sottocutaneo. A proposito dell’accoppiata “siringa-morfina” va detto che nel 1804 Armand Séquin isolava la morfina mentre Alexander Wood nel 1853 inventava la siringa ipodermica, sicché solo dopo questa data diventa possibile l’assunzione di droghe in forma pura direttamente nel circolo sanguigno. Inoltre l’interesse per l’incannulazione venosa era diretto verso trasfusioni di sangue che però possono essere fatte solo tra individui che hanno gruppi sanguigni uguali e questo lo si incominciò a sapere dal 1909, anno in cui Karl Landsteiner (cui fu assegnato il premio Nobel nel 1930) scoprì gruppi sanguigni (A, B, AB, O), mentre Alexander Weiner trovò il fattore sanguigno Rh nel 1940[14]

clistere di albicasis

Lo strumento per clisteri di Albucasis, Manoscritto arabo medioevale – On Surgery and Istruments (a cura di M.S. Spinke G.L. Lewis), The Wellcome Institute of the History of Medicine, Londra, 1973.

E’ vero che Girolamo Segato (1792-1836), studioso di chimica e di mineralogia, cartografo, naturalista, viaggiatore, di cui sono conservati nel dipartimento di Anatomia, Istologia e Medicina Legale dell’Università di Firenze parecchi pezzi pietrificati, fu un ricercatore geniale e bizzarro, ma non lasciò annotato nulla del proprio procedimento tanto più che sulla sua tomba c’è scritto

Qui giace disfatto Girolamo Segato da Belluno che vedrebbesi intero pietrificato se l’arte sua non periva con lui. Fu gloria insolita dell’umana sapienza esempio d’infelicità non insolito morto di anni XLV il III febbraio MDCCCXXXVI.

Queste preparazioni “di sasso marmoreo” hanno sempre affascinato e interessato gli studiosi, ma nessuno afferma che sono corpi, al momento della pietrificazione, ancora in vita, essendo dei meri preparati anatomici di parti del corpo umano indivisibili dall’intero preparato (ad es. “Arto superiore destro con terzo distale dell’omero, avambraccio e mano: dal lato volare si notano i muscoli flessori con tendini e loro guaine, flessore lungo del pollice e il pronatore quadrato e il tendine del muscolo ulnare esterno e il flessore radiale del carpo; arteria radiale e ulnare di colore rosa corallo, si nota anche l’arcata palmare superficiale e dal lato dorsale si vedono i muscoli estensori superficiali dell’avambraccio” indissolubili dal resto quantomeno perché di pietra).

segato mano.

Arto superiore destro con terzo distale dell’omero, avambraccio e mano

I preparati lapidei del Segato sono visibili al pubblico al Museo Anatomico Fiorentino del Dipartimento di Anatomia Istologia e Medicina Legale dell’Università degli Studi di Firenze.

Ma vediamo la presunta spiegazione che ci fornisce Rino Di Stefano, un giornalista professionista del tutto privo di conoscenze sia storiche che mediche, però con così tanta immaginazione da riuscire a fare a meno delle competenze che di solito servono al normale investigatore, tanto da fargli raccontare con un atteggiamento imprevidente (ma anche parecchi e macroscopici errori) la “vera storia di Raimondo di Sangro”. Il nostro giornalista raggiunge il massimo descrivendo i tre cadaveri “pietrificati” che in origine erano nel laboratorio del Principe e attualmente nella “Cavea Sotterranea” della Cappella Sansevero. In realtà il feto non c’è più da tempo (ma lui lo vede! Come la Serao che vede una spugna a fianco al Cristo Velato[15]), essendo stato rubato come altre parti delle statue.

Qui, in due teche di vetro alte circa due metri, sono conservate le cosiddette “macchine anatomiche”.
 Lo scheletro della donna ha il braccio destro alzato e i globuli oculari interi, quasi ancora lucenti, in un’espressione di vero terrore. Sembra quasi che invochi aiuto. Le ossa sono interamente rivestite dal fittissimo sistema arterioso e venoso che, metallizzandosi, ha preservato anche gli organi più importanti. Il cuore è intero e nella bocca si possono riconoscere persino i vasi sanguigni della lingua. Era incinta. Nel ventre si può notare la placenta aperta dalla quale fuoriesce l’intestino ombelicale che va a congiungersi con il feto. Così come quello della madre, anche il cranio di questo bambino mai nato si può aprire per vederne all’interno la complessa rete dei vasi sanguigni.
 Il corpo dell’uomo ha più o meno le stesse caratteristiche, solo che le braccia scendono lungo il tronco. Lavorando di fantasia, si potrebbe pensare che entrambi siano stati legati mani e piedi ad una specie di tavolo operatorio e che solo la donna, prima di morire, sia riuscita a liberare il braccio destro che ha agitato, cercando scampo, fino a quando la sua circolazione sanguigna non si è bloccata.
 Ma come ha fatto realmente il Principe a realizzare le sue “macchine anatomiche”? Non lo sappiamo. … Alla luce delle attuali conoscenze mediche, si potrebbe pensare che il diabolico don Raimondo, sempre con l’assistenza del medico Giuseppe Salerno, abbia iniettato nelle vene delle due malcapitate cavie una sostanza che, entrando in circolo, abbia progressivamente bloccato la rete sanguigna fino alla morte dei soggetti. A questo punto la misteriosa sostanza avrebbe «metallizzato» vene e arterie preservandole dalla successiva decomposizione. Il Principe, infatti, deve aver aspettato che pelle e carne si decomponessero completamente prima di ottenere quelle che lui, con tanta pomposità, chiamava le “macchine anatomiche.[16]

“Alla luce delle attuali conoscenze mediche” – non si dice quali cognizioni e chi sono i medici che le propalano, ma lo si continua a ripetere! Si è certi che la scienza spiega tutto (se no che scienza sarebbe!), anche e soprattutto l’impossibile, ossia l’incomprensibile, cioè il fatto che grazie a un liquido metallizzante iniettato nel sistema circolatorio (non si sa dove e come, però! Alcuni dicono le vene ed altri l’aorta), il cuore non viene raggiunto se non alla fine, cioè quando ha pompato il misterioso fluido fino ai più piccoli capillari e ricomincia il suo viaggio di ritorno (fino al muscolo cardiaco per arrivare ai polmoni, dai quali ritorna al cuore). Il fatto è che attraverso il sistema venoso, il sangue (con la misteriosa sostanza metallizzante) va agli alveoli polmonari e lì necessariamente si ferma e attraverso il sistema arterioso non sarebbe possibile pensare che il sangue “metallizzante” arrivi ai capillari pietrificandoli.

Diceva Guglielmo di Ockham che non vi è nessuna ragione per complicare ciò che è semplice (Frustra fit per plura quod fieri potest per pauciora) per cui ci si domanda se sia possibile che un “giornalista” abbia almeno sentito lontanamente parlare delle ceroplastiche, ossia dei modelli in cera del corpo umano usati già dal XVII secolo nelle lezioni di anatomia.[17]

William Harvey[18] (1578-1657) descrive il cuore ricorrendo ad un modello idraulico raffigurato in termini quantita­tivi [as by two clocks of a water bellow to rayse water]. Il medico anglosassone, formatosi a Padova, annota, di propria mano, in lingua inglese all’interno di un testo latino per garantirsi di non essere frainteso, ossia le val­vole cardiache sono “come le due valvole di una pompa idraulica aspirante e premente”. William Harvey, infatti, nelle Prelectiones scrive:

“WH constat per fabricam cordis sanguinem per pulmones in Aortam perpetuo transferri, as by two cloks of a water bellow to rayse water constat per ligaturam transitum sanguinis ab arteriis ad venas unde D (il ‘delta’ sta per demonstratum est) perpetuum sanguinis motum in circulo fieri pulsu cordis An? hoc gratis Nutritionis an Magis Consenationis sanguinis et Membrorum per Infusionen calidam vicissimique sanguis Calefaciens membra frigifactum a Corde Calefit[19].

In primo luogo egli comprende che le valvole devono essere non come quelle del modello di Fabrici, delle chiuse, ma come il modello di un mantice idraulico (claks of a water bellow). Andrea Cesalpino (1519-1603) intuì e presentì (anche se non lo dimostrò) la presenza di minuscole e sottilissime vene e arterie (i capillari), cioè l’esistenza della circolazione polmonare per cui il sangue giunge ai polmoni dal cuore e viene a contatto con l’aria proveniente dai bronchi. Marcello Malpighi (1628-1694), che con le descrizione degli alveoli polmonari e della loro funzione[20] mise a punto il meccanismo della grande e la piccola circolazione, riuscì in seguito affermare con sicurezza:

So che è ineffabile il modo con che l’anima nostra si serve del corpo nell’operare; è però certo che nelle operazioni della vegetazione, del senso e del moto, l’anima è necessitata ad operare conforme la macchina alla quale è applicata, in quella guisa che un orologio o molino è egualmente mosso da un pendolo di piombo o sasso, o da un bruto, o da un uomo: anzi, se un angelo, lo movesse faria la stessa mozione con variazione di siti come fanno i bruti[21].

E in questo caso la macchina è lì da vedere! [e almeno questo le persone colte di quei tempi lo sapevano benissimo!]. Tutta la medicina del XVII secolo, la iatrofisica e la iatromeccanica, hanno ricostruito i modelli dei vari organi (la bocca e i denti come macine, lo stomaco come un alambicco che trasforma il cibo in sangue, i reni come un crivello, i polmoni come un mantice, il cuore come una pompa …).

Se noi facessimo un prototipo idraulico del cuore (motore) e della circolazione sanguigna (vettore) [pare che il Principe lo stesse progettando fin dal 1739, ma purtroppo ne era piena l’Europa] avremmo uno schema che quantomeno presenta:

  1. a) una piccola circolazione: le arterie polmonari che portano il sangue venoso dal ventricolo destro ai polmoni e le vene polmonari che portano il sangue arterioso dai polmoni all’orecchietta sinistra (le arterie e le vene polmonari sono soggette a numerose ramificazioni, originando una fitta rete di capillari che avviluppano gli aveoli polmonari);
  2. b) la grande circolazione: il percorso che fa il sangue per andare dal ventricolo sinistro alla periferia e da questa ritornare all’orecchietta destra.

Basta conoscere il meccanismo della circolazione del sangue per non prendere in considerazione le terribili idiozie sopraccitate (ma noi lo faremo perché repetita juvant).[22] Basterebbe leggere qualcosa sullo Studio di Padova nel XVII e XVIII secolo, da Bartolomeo Eustachi (1514-1574) a Giovanbattista Morgagni (1682-1771) (su di un normale libro di testo) per capire come la circolazione sanguigna fosse già del tutto compiuta con il Malpighi; se il Principe voleva occuparsi dell’argomento bastava che leggesse i libri che ormai erano stati pubblicati un secolo prima (e almeno alcuni li aveva letti e certamente li aveva studiati il Salerno, il costruttore delle macchine anatomiche). Sappiamo inoltre che il grande chirurgo Marco Aurelio Severino (1580-1656) era stato lettore di Anatomia Chirurgia nello Studio di Napoli dal 1622 al 1645, allievo della scuola di Galileo, in contatto epistolare con tutti i grandi medici europei (l’unica copia conosciuta con dedica della prima edizione del De motu cordis è quella regalata a lui nel 1636 da Harvey): fu un difensore della teoria harveyna della circolazione sanguigna tanto da arrivare alle soglie della malpighiana circolazione polmonare. Fu allievo di Giovanni Filippo Ingrassia da Regalbuto (1510-1580) che lasciò una grande scuola e un’Accademia di Anatomia (rifondata 1645 nella Casa di S. Ninfa dei padri Crociferi) l’Accademia degli Jatrofisici di Palermo, di cui Giuseppe Salerno diventerà il presidente un secolo dopo.

Ma purtroppo l’haravec era ancora legato alla vecchia iatromeccanica di Santorio Santorio (1561-1636), per quanto dalla Scuola galileana siano usciti, vuoi direttamente vuoi indirettamente, i maggiori meccanismi fisiologici scoperti nell’epoca: il metabolismo da Santorio (perspiratio insensibilis, alimentazione-secrezione esterna escrezione, modificazioni della temperatura corporea); il modello idraulico della circolazione sanguigna di W. Harvey, i movimenti osteomuscolari di Borelli; i due meccanismi della diuresi: quello di Bellini e quello di Malpighi; i meccanismi della digestione; i meccanorecettori del gusto di Malpighi (quelli del tatto verranno mutuati dal medico bolognese da Stenone) ed infine il meccanismo della compressione e decompressione. Ciò che peraltro alla iatromeccanica interessa di più è il moto interno dei meccanismi organici e cioè non un modello strettamente meccanico delle articolazioni, ma un modello idropneumatico della circolazione dei fluidi, non il moto esterno. Sta di fatto però che è dall’ultimo anello della catena, il moto esterno, che la iatrofisica parte per quel viaggio all’interno del corpo umano che la porterà a chiudere il sistema circolatorio con la macchina polmonare ed in generale a vedere i rapporti fra la circolazione dei fluidi e la secrezione

Riguardo ai moti esterni (il sistema effettore): descrizione delle strutture osteo-muscolari, modelli cinematici e dinamici del moto degli animali, analisi dei rapporti fra crescita della dimensione e della massa corporea e relativa mobilità dell’animale in ambienti naturali diversi (aria, acqua, terra). Riguardo al sistema estesiologico (sistema recettore): modelli fisico-chimici dei meccanorecettori del tatto e del gusto e schemi di meccanizzazione dell’odorato e di alcune funzioni della vista e dell’udito. Schema della conduzione per via idraulica dello stimolo dai sensori ai neuroni e dai neuroni (i meccanorecettori del cervello) agli estensori dei muscoli.

Riguardo ai moti interni (circolazione dei fluidi, sistema alveolo-polmonare, cardiaco, ghiandolare e vegetativo): modello idrodinamico della circolazione sanguigna, modello fisico-chimico della macchina alveolo-capillare ed analoghi modelli delle varie macchine della secrezione, digestione e diuresi.

Tutte queste macchine saranno via via compaginate nel progetto della meccanizzazione delle operazioni del senso, della vegetazione e del moto, secondo il noto paragone degli artigiani che usano fabbricare preliminarmente le singole parte in modo che prima si vedano separatamente i pezzi e in seguito questi vengano connessi fra loro al fine di formare la macchina del corpo umano.

A distanza di un secolo appena il meccanicismo biologico, aperto, ancorché timidamente, dagli studi galileani sulla dinamica degli arti, sulle macchine estesiologiche e su quelle della conduzione dei fluidi, celebrava con il Malpighi e il Morgagni la sua giornata di gloria. Poi nel 1761 il “Padre della patologia moderna” pubblicò il suo principale contributo alla scienza della salute, De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis, facendo ricorso soltanto al metodo sperimentale.

Il Principe, che non era né un medico né un fisico, era un inventore (un trovatore o uno scopritore) di diversissimi congegni o dispositivi o marchingegni; egli cercò, ad esempio, in laboratorio le condizioni in cui avviene la digestione ottenendone un liquido secreto di colore rossastro che assomigliava ad “sangue” “artificiale”, ma anche “il lume eterno”, la resurrezione dei gamberetti … In sostanza lera un alchimista sincretista.

Racconta Marisa Uberti, nel sito curato da Ciro Cozzolino http://www.partecipiamo.it/Turismo/Napoli/ Principe_di_Sansevero/Raimondo_di_Sangro.htm :

Raimondo di Sangro era ossessionato dall’immortalità e a tal proposito si dedicava ai più svariati esperimenti. Nella cripta della cappella si conservano, in un armadio, due corpi alquanto singolari: sono definiti macchine anatomiche. Sono due scheletri, uno di sesso maschile e uno femminile, con la caratteristica di avere ancora la rete sanguigna che sarebbe stata “solidificata” con un procedimento inventato dal Principe. Pare accertato che egli iniettò, nel 1739, [in questa data il Principe non aveva ancora iniziato il ripristino della Cappella di famiglia] una soluzione alchemica nei due corpi già cadaveri acquistati dal medico palermitano Giuseppe [che all’epoca ancora non conosceva], suo “complice”. I corpi sarebbero ricoperti da una cera (d’api?) colorata e montata su armature di ferro e spago. L’obiettivo doveva essere quello di conservare i corpi per l’eternità, mummificandoli, ma il sistema fallì e le carni si deteriorano e solo il sistema cardiocircolatorio rimase integro… Tuttavia un esame compiuto negli anni Cinquanta del ‘900 ha rivelato <che l’intero sistema di vasi sanguigni, all’analisi, si è rivelato metallizzato, cioè impregnato e tenuto in sesto da metalli [ quali? ] in esso depositati>.

E questo è il massimo centone disponibile ed è di guida e conduttore del web.

Prima parte: la solidificazione di due scheletri, di cui è rimasta soltanto la rete sanguigna perfetta, con un liquido metallizzante ignoto.

Seconda parte: volendo mummificare (imbalsamare, pietrificare, solidificare…) i cadaveri, che avevano tutto al loro posto – l’epidermide, i vasi, i muscoli, i tendini, gli organi … – si andò incontro a un fallimento quasi totale, ossia buona parte della salma andò in decomposizione. Il sistema circolatorio e, ovviamente, gli scheletri rimasero integri e allora si ricoprì il tutto con cera d’api e vennero fatte delle statue anatomiche montate su armature di ferro e spago, il tutto dipinto con vari pigmenti. E’ chiaro che i medici negli anni ’50 trovarono del metallo perché esisteva realmente (era filo di ferro ricoperto da cera), ma non si accorsero che il calibro dei vasi non andava diminuendo fino a diventare fitta rete di vasi o canali microscopici (e appunto perché microscopici invisibili a occhio nudo)[23].

Ma tutte queste ricostruzioni fantastiche non partono certo da un improvvido gazzettiere genovese o da sconsiderati scribacchini napoletani posseduti dal fascino inquietante del misterioso che riversano anche sul web. E’ il meccanismo della nascita e della crescita di una leggenda che non racconta mai dei fatti meramente inventati e immaginati; non sono eventi irreali e frutto di fantasia, ma racchiudono sempre una certa parte di verità e non sono mai concepiti da una sola persona, ma vi contribuiscono di continuo e in modo persistente vari individui che, con il passare del tempo, alterano continuativamente la realtà al punto che non si riesce più a riconoscere la storia che ci sta dietro. Addirittura fra questi vari individui alcuni “grandi” della nostra letteratura, che però fanno distinzione fra narrazioni popolari e storia.

Quante cchiu’ simme, cchiu’ belle parimme” – dicono a Napoli in senso sarcastico, “Quanti più siamo, più belli sembriamo”, ossia quel che dice la folla è una verità più veritiera; e la verità è tale a seconda di quanti siamo numericamente a dirla (e questo è autentica democrazia!).

Sentiamo cosa pensano di don Raimondo dai suoi contemporanei in poi:

Io era amico col principe di S. Severo, D. Raimondo di Sangro […] Questo signore è di corta statura, di gran capo, di bello e gioviale aspetto, filosofo di spirito, molto dedito alle meccaniche: di amabilissimo e dolcissimo costume: studioso e ritirato: amante la conversazione d’uomini di lettere. Se egli non avesse il difetto di aver forte fantasia, per cui è portato qualche volta a credere cose poco verisimili, potrebbe passare per uno de’ perfetti filosofi. Egli era degli intimi amici delle Maestà loro: ma la lettera apologetica De Quipue, scritta con più di libertà di quello che i teologi avrebbero voluto, e l’essersi poi scoverto capo dei liberi muratori di Napoli, gli concitarono tale nemicizia de’ preti, e specialmente del cardinale Spinelli, che niuna occasione ometteva per giustificare i suoi antecedenti passi, che il minarono nell’animo del Re.[24]

Così riferisce il suo amico e maestro di metafisica, il grande filosofo illuminista Antonio Genovesi (1713–1769), che morì a Napoli il 22 settembre 1769 e la cui salma fu interrata nella Chiesa del convento di Sant’Eramo Nuovo a cura di Raimondo di Sangro, Principe di San Severo.

Parlando delle arti, noi crediamo di dover fare distinta menzione di Raimondo di Sangro, il quale senza averne professata alcuna, ne ha 
molte illustrate col suo gusto e colle sue invenzioni. Si poteva dire di lui quel 
che Fontenelle diceva di un altro letterato, che conteneva in sé un’accademia 
intera … Ma egli non ambiva essere autore: qualche segreto l’ha comunicato 
a’ suoi amici, gli altri o sono morti con lui, o giacciono ignoti in qualche 
angolo della sua casa.

Scriverà nel 1792 Giuseppe Maria Calanti trent’anni dopo la morte del principe:

Il Principe di Sansevero fu senza dubbio … un uomo colto ed ingegnoso. Egli non ha lasciato un nome nella storia del sapere, ma ha dato luogo a leggende più o meno maravigliose, perché facea un segreto dei suoi trovati, amando destare la sorpresa dei suoi coetanei. Così egli trovò il modo di colorire i marmi, ma non pubblicò il metodo di cui si avvaleva … Mancando adunque di opere pubblicate, resta la tradizione, dalla quale sceverando il maraviglioso e l’esagerato, si deve dire che il Principe di Sansevero fece molte cose per farsi ammirare dai coevi, ma curò poco il giudizio dei posteri[25].

Accerta con “attendibilità” il patriota mazziniano e cattedratico di eloquenza in un liceo di provincia Luigi Settembrini (1813–1875).

Fiamme vaganti, luci infernali – diceva il popolo – guizzavano dietro gli enormi finestroni che danno dal pianterreno, nel Vico Sansevero, ed ora le fiamme erano colorate di rosso, or di azzurro, ora di quel verde brillante che nelle buie officine degli orafi tra vapori letali dell’idrargirio, tinge bizzarramente il viso dell’artefice e guizza in tante lingue sottili. Scomparivano le fiamme, si rifaceva il buio, ed ecco romori sordi e prolungati suonavano là dentro: di volta in volta, nel silenzio della notte … Era di là che il romore partiva: lì, inserrato co’ suoi aiutanti, il principe componeva meravigliose misture, cuoceva in muffole divampanti … porcellane squisite e terraglie d’ogni sorta; lì mescolava colori macinati per la stampa tipografica e faceva gemere i torchi fabbricati, secondo le sue stesse norme, per imprimere una sola volta parecchi colori sul foglio, li ancora tingeva lastre marmoree di colori diversi e in maniera che nel bianco marmo penetrasse una tinta indelebile e ne componesse, artefatte, le più curiose varietà … Quell’uomo fu di grande ingegno e di grandissimo spirito: se non mi sbaglio, si valse dell’una cosa più per diletto proprio che per altro, e dell’altra usò per burlarsi un po’ di tutti. E anche, e specie per questo, ch’egli ha meritato di passare alla posterità.

Lo ritrae in modo autentico il verseggiatore (grande novelliere nero) e rimatore delle canzoni napoletane Salvatore Di Giacomo (1860-1934):

Il Lalande, che lo conobbe personalmente e parla a lungo di alcune sue invenzioni, nel suo Voyaye en Italie, dice che Raimondo di Sangro non era un accademico, ma un’accademia intera e a ragione pretendeva di esser chiamato, con vocabolo peruviano: Haravec, cioè inventore … Delle sue scoperte scientifiche e delle sue invenzioni io non so che cosa sia rimasto nel dominio pubblico. Come tutti gl’inventori, il principe teneva segrete le sue ricette … Tattica, invenzioni militari, invenzioni pirotecniche … invenzioni idrauliche, architettoniche, artistiche; studi di lingue antiche e moderne, di filosofia, teologia, storia e antiquaria…

Afferma e ripete il romanziere e drammaturgo Luigi Capuana (1839-1915):

Quando sentì non lontana la morte, provvide a risorgere, e da uno schiavo morto si lasciò tagliare a pezzi e bene adattare in una cassa, donde sarebbe balzato fuori vivo e sano, a tempo prefisso; senonché la famiglia, che egli aveva procurato di tenere all’ oscuro di tutto, cercò la cassa, la scoperchiò prima del tempo, mentre i pezzi del corpo erano ancora in processo di saldatura, e il principe, come risvegliato nel sonno, fece per sollevarsi, ma ricadde subito, gettando un urlo di dannato. Sono, tutti codesti, vecchi motivi che facilmente dovevano raccogliersi intorno alla persona storica di Raimondo di Sangro principe di Sansevero (1710-71)8, enciclopedico, misterioso, sempre intento a esperienze di chimica, sempre annunziatore di suoi ritrovati mirabili che nessuno vide mai in atto, o che in ogni caso non ebbero capacità di sopravvivere al loro inventore, un po’ fantastico e appassionato e un po’ altresì divertentesi a canzonare il prossimo.[26]

Racconta lo “storico-filosofo” Benedetto Croce (1866-1952), passando però dalle tradizioni popolari alla storia:

… non bisogna trascurare il largo contributo che a quella classe apportò la nobiltà; la quale, nella sua parte migliore…, contò nelle sue file un Raimondo di Sangro principe di Sansevero, un Gaetano Filangieri, un marchese Palmieri, un Salvatore Pignatelli principe di Strongoli, un duca di Cantalupo de Gennaro, un marchese Caracciolo, e altri scrittori…[27]

Sono grandi scrittori che sanno che quando si passa dal racconto di favola alla storia si deve cambiare il modo di approcciare i fatti, mentre “il giornalista” (colui che non sa nulla, ma te lo spiega) compone quei pezzi in un forsennato “gossip” (pettegolezzo atto a rovinarti) ante litteram.

E noto – scriveva il Fittipaldi – ormai che questo scultore in legno e in cera [Ercole Lelli] modellava muscoli perfettissimi con canapa inzuppata di cera mischiata con semola e trementina, applicandoli su veri scheletri umani. Sarebbe auspicabile uno studio condotto con moderni intenti storico-critici e scientifici su quest’altra iniziativa avviata dal Principe e sui molteplici aspetti e sulle implicazioni che essa comporta… ed uscire finalmente fuori dalle interpretazioni negromantiche, divenute quasi una sorta di luogo comune o per mettere a tacere le più turpi interpretazioni da fattucchiere e da imbonitori[28].

L’uso delle cere ad uso funerario (come fosse uno stampo del viso del morto) esiste storicamente da sempre e continua tuttora, ad uso ludico, nei Musei delle Cere sparsi in tutto il mondo; ma la più antica riproduzione anatomica, in cera rossa, del corpo umano è il cosiddetto “scorticato” realizzato nel 1600 da Lodovico Cardi (1559-1613) detto “il Cigoli”, un artista della scuola del Bronzino, che si dedicò agli studi di anatomia artistica nell’Ospedale di S. Maria Nuova in Firenze e partecipò a numerose dissezioni cadaveriche, aprendo la strada dei preparati a secco di Antonio Maria Valsalva (1666-1723) e della ceroplastica di Gaetano Zumbo (1656-1701). Vale la pena di ricordare che Leonardo, Raffaello, Tiziano e specialmente Michelangelo (cfr. la gamba di uno scorticato di marmo, ossia un disegno a tre dimensioni) descrivevano dal punto di vista artistico quel che Mondino, Berengario, Vesalio, Fallopio, Cesalpino studiavano dal punto di vista medico.

Zumbo TESTA

Ceroplastica di Gaetano Zumbo

Gaetano Giulio Zumbo nacque nel 1656, a Siracusa, ma dal 1687 al 1691 visse a Napoli dove Marco Aurelio Severino (1580-1656) all’Ospedale di San Giacomo Apostolo aveva creato le prime collezioni di dissezione dei cadaveri, a scopo didattico, sia preparati a secco sia sculture a cera e, appunto, in quella città diede inizio all’uso della ceroplastica per le rappresentazioni anatomiche (si veda Il Trionfo del Tempo e La Peste ora appartenenti alla Specola di Firenze, ma eseguite a Napoli – ove si vedono chiaramente gli sfondi meridionali). Una particolarità dello Zumbo è che esegue alcuni modelli in cera su ossa autentiche; ad es. L’anatomia della testa è fatta usando il cranio di un uomo venticinquenne (già morto, ma non metallizzato, al massimo ceroplastificato). Le ceroplastiche vengono ottenute da calchi in gesso a tasselli, formati su modelli in argilla e rifiniti con estrema precisione con cera semiliquida (miscuglio di cera d’api, colofonia, trementina e coloranti) più e meno fluida per ottenere il colore, la lucentezza e la consistenza volute. I procedimenti tecnici saranno sempre tenuti segreti (cosa che faceva qualunque artigiano, dal cuoco al profumiere); di ogni pezzo anatomico da riprodurre ne era realizzata una copia precisa e rigorosa in argilla o in cera di mediocre qualità e su questa veniva eseguito un calco in gesso che era usato come matrice per l’organo in cera definitivo. L’utilizzo della cera (cinese, veneziana, bianca di Smirne …) doveva essere fatto nel modo giusto, ossia fonderla lentamente a bagnomaria affinché non cambiasse colore, aggiungervi trementina per renderla più duttile e flessibile e unirvi dei coloranti il più possibile naturali; prima di iniettare la cera, ovvero versarla dentro il calco, bisognava che questo fosse lavato con acqua tiepida e sapone morbido per potere staccare il pezzo il quale veniva nel caso di una statua assemblato alle altre parti poste su una armatura in metallo, nel caso di un organo, aperto e scavato in modo che si vedesse anche l’interno; in tal modo erano applicate, ad es., le striature del muscoli o i più piccoli vasi visibili, i tendini, i nervi, etc… affinché il pezzo fosse completo con apparenza elastica e plasticamente perfetto.

Sappiamo che Zumbo visse dal 1687 al 1691 a Napoli (come già abbiamo visto), a Firenze dal 1691 al 1694, chiamato da Cosimo III; da qui fece diversi viaggi a Bologna per conoscere ed esercitarsi sugli studi di anatomia con la ceroplastica e infine giunse a Genova, dove realizzò le sue massime cere anatomiche, per passare a Marsiglia e Parigi, chiamato da Luigi XIV, dove morì per un’emorragia cerebrale.

A Firenze frequentò lo studio di anatomia umana, applicandosi a modellare delle statue di cera a scopo didattico e da qui si sarebbe originata la Scuola successiva, fondata da Felice Fontana nel 1771 e portata avanti fino a Egisto Tortori (1829-1893), ovvero l’Officina di ceroplastica fiorentina della quale si sarebbe scritto:

… relativamente ai cadaveri di Santa Maria Nuova di quanti ne ha allorché si chiedono, ne si può far morir le genti a comodo delle collezioni in cera: un registro ha bensì stabilito alla porta del museo medesimo per segnare i cadaveri che vi adoprano mentre appare il considerevole consumo dei medesimi, indica pure quante volte e quanti restano inviati ai camposanto …

(da un documento d’archivio del 1793). [29]

felice fontana

Felice Fontana (1730-1805)

Si parla di 200 cadaveri-modello per poter dare forma ad una statua (si tentò anche in legno e in creta, ma per ragioni di tenuta del materiale si preferì la cera) e al Museo Anatomico Fiorentino si trovano i preparati di Clemente Susini (1754-1814) e Paolo Mascagni (1755-1816), che lavorarono all’apparato cardiocircolatorio, ai vasi sanguigni e linfatici che venivano iniettati e quindi dimostrati, e del grande medico Filippo Pacini (1849-1883) che, oltre alla sue molteplici ed autorevolissime scoperte in fisiologia ed epidemiologia, fu direttore del Museo Fisiologico, si preoccupò sempre con particolare cura e perizia della conservazione dei pezzi della raccolta.[30]

Ma sarà a Bologna che con Ercole Lelli (1702-1766) verrà dato avvio ad una vera e propria scuola d’arte del modellare in cera preparati anatomici ad uso didattico, soprattutto grazie alla nomina del Cardinale Prospero Lambertini a Papa Benedetto XIV (1740), autentico mecenate di questa tecnica al tempo stesso artistica e anatomica[31]. Nel 1732 il Lelli modellò in creta una statuetta di Spellato e nel 1734 la Commissione del Teatro Anatomico dell’Archiginnasio gli affidò la costruzione degli Scorticati in creta o cera “sic espressa, ut veterum formam elegantiamque redoleant” e l’allestimento della Camera Anatomica, dove fu incaricato nel 1742 da Papa Benedetto XIV di rappresentare della miologia e osteologia umana, mentre nel novembre del 1747 ricevette dal pontefice l’incarico di custode e ostensore della “Stanza della Notomia” di Palazzo Poggi.

A questo punto dobbiamo ricordare come le “macchine anatomiche” costruite dal Principe di San Severo nel 1763 con l’aiuto del medico e anatomista Giuseppe Salerno Salerno (1763-64)[32] siano esattamente due statue in ceroplastica ideate per rappresentare l’insieme dei vasi sanguigni dell’uomo. Ed è questo che vuole il Principe, ossia che i professori di tutta Europa li vedano e si propaghi la sua fama di “trovatore” dell’albero circolatorio che il Lelli e la Scuola bolognese, sponsorizzati dal Papa, non avevano ancora costruito in ceroplastica.

Raimondo di Sangro è in ottimi rapporti con Benedetto XIV e difatti nel 1744 fu da questi ricevuto due volte e, addirittura, ammesso alla lettura dei libri proibiti, ma nel 1750 entra a far parte della Libera Muratoria, di cui è nominato Gran Maestro, e pubblica la sua Lettera Apologetica, cose che gli varranno il parere ostile del Papa e la messa all’Indice del proprio libro (da lui stesso editato). Nel 1751, dopo pubblicazione dell’Enciclica “Provvida Romanorum Pontificum” che prevedeva la scomunica contro la massoneria, San Severo scrive una lettera di scuse al Papa sui motivi che l’hanno portato verso la “società segreta” (appena condannata anche da Clemente XII); questa è accompagnata da una missiva del Nunzio Apostolico in cui si dice che il Principe si è dimesso dalla “Setta de’ Liberi Muratori” e dichiara che il libro “che porta il Titolo di Quipù”[33] non è un modo di mascherare una cifra della loggia frammassonica. Così egli sfugge la scomunica, ma ce n’era abbastanza per corrompere un rapporto giunto da una forte simpatia di ambedue ad un vigoroso sdegno del Papa. Due anni più tardi il Principe scrive ben 224 pagine al Pontefice per “difendere la propria identità umana e spirituale”[34] e ne ricava l’accettazione delle sue discolpe e l’esclusione dall’Indice della Lettera Apologetica, ma da questo momento il De Sangro, altezzoso, altero e corrosivo per natura, si chiuderà in se stesso non rispondendo più ai suoi nemici.

Egli, pur non essendo un medico, si interessò alle anatomie e alle fisiologie della circolazione sanguigna vuoi per “l’errore fatto dal Cerusico Curzio”[35] (che aveva fatto ingerire delle sostanze mercuriali oralmente, facendo un errore pacchiano sulla fisiologia delle vene), ma fondamentalmente perché al suo tempo non esistevano delle ceroplastiche del sistema cardiocircolatorio [ricordiamoci che l’Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus di W. Harvey è pubblicata nel 1628, la Opera Omnia del bolognese Marcello Malpighi esce a Londra nel 1687, ma che bisogna lasciar passare un po’ di tempo prima che vengono fatti i modelli in ceroplastica].

clemente susini

Clemente Susini – I vasi linfatici superficiali – fine del XVIII secolo, Università di Pavia

Ercole Lelli realizzò 41 statue scheletriche (ostelogia e atrologia) e miologiche (e alcuni organi quali i reni, la lingua, la laringe, la vescica …), ma nessuna del cuore e del sistema circolatorio; la sua allieva Anna Morandi (1716-1774) dopo la scomparsa del marito, avvenuta nel 1755, fu associata all’Accademia Clementina e all’Accademia delle Scienze di Bologna, incominciò a fare la muscolatura cardiaca, le valvole del cuore atrioventricolari e semilunari, l’insieme cuore-polmoni, cuore rivestito del pericardio viscerali, la mano con le vene, vasi e nervi accolti nella cavità orbitaria … ma non il sistema circolatorio nel suo insieme. E’ soltanto con Clemente Susini che viene rappresentato in ceroplastica il sistema cardiovascolare e polmonare e questo dopo gli anni ’80.

E’ stato, ricordiamolo, il Principe il primo a pensare di riprodurre in cera “tutte le vene, e tutte le arterie de’ Corpi umani” e questo nel 1763. Il documento seguente, trovato da Clara Miccinelli il 13 maggio 1983 all’Archivio Notarile Distrettuale di Napoli parla di escogitare la maniera di costruire in un “Corpo Reticolare il cammino dell’Arterie e delle vene simile alla Natura formate”:

Die undecima Februarii 1763: Neapoli costituiti nella nostra presenza l’Ecc. ma Sig. D. Raimondo di Sangro Principe di S. Severo, … e il Dottor D. ]oseph Salerno della città di Palermo, di professione medico, al presente in questa Dominante, il quale agge … Le soprad. Parti hanno asserito in presenza nostra qualm.e avendo D. Sig. Pnpe escogitata la maniera di costruire in Corpo Reticolare il cammino dell’Arterie e delle vene simile alla Natura formate, osia una Macchina Anatomica di un sommo utile per l’umana società; la sud.a Macchina circolatoria delle Arterie e delle vene verrà eseguita a puntino con Cera, la quale Esso Sig. Pnpe appresterà di modo che tutti i professori potranno essaminare e studiare le Metamorfosi del Corpo Umano; impercioché il sud. D. ]oseph Salerno, il quale ha avuto contezza di essere in questa Città di Napoli, si è compromesso di offerire la sua Scientia Medica per il compito del Sud.o modello, colli seguenti patti, e condizioni, cioè:

I Il Sig.Principe si obbliga a sistemare il Sud. Sig. Salerno per l’opera in loco solitario e con tutte le convenienze; a pagare allo riferito D. ]oseph Salerno la somma di ducati duemila per intiero prezzo convenuto in più paghe, cioè ducati venti p.ma d’incominciare; altri D.ti Centotrenta, a mano a mano che anderà lavorando; e gli restanti D.ti MilleOttocentocinquanta, quando il Lavoro sarà terminato di tutto punto, quale è stata l’idea del D. Sig. Pnpe.

II Il riferito dottore ]oseph Salerno si obbliga viceversa a procurare uno Scheltro, o più Scheltri, per la Sud.a Macchina, che appresterà per la costruttura del modello, e tutte le accortezze utili alla perfezione del modello.

III Compita l’opera, Essa verrà posta nella Sala del Palazzo di d.o. Sig.re Pnpe, per mostrarla ai Professori, acciò che non cadano nell’Errore di cura fatto dal Cerusico Curzio nell’anni 1752-1754 nel Spedale Incurabili di Neapoli a danno di una povera Inferma di Male, detto Morbo Stravagante.[36]

E quindi ripartiamo da uno scritto del 1766 sulla casa di Raimondo di San Severo, da egli stesso composto o da lui commissionato:

In una stanza d’un altro Appartamento, che chiamano della Fenice, il quale sta tutto in fabbrica, per renderlo meglio diviso e comodo, si veggono due Macchine Anatomiche, o, per meglio dire, due scheletri d’un Maschio, e d’una Femmina, ne’ quali si osservano tutte le vene, e tutte le arterie de’ Corpi umani, fatte per iniezione, che per essere tutt’interi, e, per diligenza, si possono dire singolari in Europa. Oltre a tutte le visceri, e le parti interiori del corpo, colla apertura del cranio, si osservano tutti i vasi sanguigni della testa; e coll’aprirsi la bocca, si vedono altresì i vasi sanguigni della lingua. Mirabile poi è la delicatezza, colla quale è stato lavorato il corpicciuolo d’un Feto, che morì in colla Madre, di cui è lo scheletro della Femmina suddetta: giace questo accosto alla Madre, la quale sta in piedi e si fa girare d’ogni intorno, per osservarsene tutte le parti. Vicino al detto bambino vi è la sua placenta aperta, dalla quale esce l’intestino ombelicale, che va ad unirsi al Feto nel suo primo luogo. Anche il cranio di questo piccolo corpicciuolò si apre, e se ne osservano i vasi sanguigni. Le dette due Macchine, o sieno Scheletri, sono opera del Signor D. Giuseppe Salerno Medico-Anatomico Palermitano[37].

Qui compare l’espressione “fatte per iniezione” che tanto inchiostro ha fatto scorrere.

E’ proprio per il fatto che noi usiamo il vocabolo “iniettare” in senso ormai univoco per “somministrazione di farmaci attraverso una siringa (”a pistone munita di ago cavo, ossia di Pravaz”) che non siamo più in grado di usare il termine “introdurre, immettere o trasfondere un liquido” o il termine latino “inicere” per “gettar dentro”. E’ chiaro che la siringa per introdurre un liquido nel corpo umano (ad es., il clistere o un irrigatore vaginale) oppure il liquore o la crema in un dolce o la farcia in una vivanda imbottita, la cera in uno stampo a canaletto … esisteva da sempre, ma qui si sta parlando di vasi o tessuti raggiunti da un fluido (nello specifico un farmaco). E per questo bisogna usare la siringa a pistone, inventata da Charles Gabriel Pravaz e contemporaneamente da Alexander Wood intorno alla metà del XIX secolo. In verità l’ortopedico francese fin dal 1841 l’aveva sviluppata come una siringa d’argento di 3 cm di lunghezza e di 5 mm di diametro con pistone di cuoio ed aghi d’oro o di platino “per cercare di curare gli aneurismi con l’iniezione di percloruro di ferro usato come coagulante, ma l’aveva sperimentata solo sugli animali (nella carotide di montoni e cavalli); in seguito, il chirurgo L. J. Béhier, che chiamò questo “appareil ou seringue de Pravaz”, ne diffuse l’uso, ad esempio come inizio della scleroterapia delle varici.

Basta leggere “quel che si vede in casa del Principe di Sansevero” (e conoscere un poco di storia della medicina) per capire che le macchine anatomiche sono delle sculture o per meglio dire delle ceroplastiche per quei tempi singolari, cioè uniche e particolari in tutta Europa.


Note

[1] Giangiuseppe Origlia, Istoria dello Studio di Napoli (1754), Prefazione al II volume. Nella stamperia di Giovanni Simone. L’Autore dedica alla figura Principe da pagina 321 a pagina 388; e v’è chi dice (senza alcuna vera ragione) che le prime 54 siano opera del Sansevero. Il Tiraboschi dice dell’opera dell’Origlia: “in cui viene di secolo in secolo dimostrando la continua successione che ivi fu si scuole non meno che di uomini dotti fino alla fine del XII secolo”. In Storia della letteratura italiana,1781, p. 318.

[2] Lettera Apologetica dell’Esercitato Accademico della Crusca contenente la Difesa del libro intitolato Lettere d’una Peruana per rispetto alla supposizione de’ Quipu scritta alla Duchessa di S**** e dalla medesima fatta pubblicare. Gennaro Morelli, Napoli 1750.

[3]la degna espressione da un dotto nostro Cavaliere usata in una iscrizione da lui composta sopra l’Autore Lettera. Apologetica…, p. 226. Questo Cavaliere potrebbe essere forse Antonio Genovesi.

[4] Delle scienze metafisiche per gli giovanetti del sig. abate Antonio Genovesi. – In Venezia: appresso Tommaso Bettinelli, 1777, – XVI, 436 p. 80 (Fregi xil).

[5] Apologetica… , pp. 208 et 217. In realtà parlerà del Lume Eterno diffusamente dal 1753 in poi: Lettres écrites par Monsieur le Prince de S. Sevère a Mons.r l’Abbè Nollet de l’Accadèmie de Sciences a Paris contenent la relation d’une decouverte, qu’il a faite par le moyen de quelques experiences Chimiques; avec l’explication Phisique de ses circostances. I Partie, Napoli, 1753.

Lettere del Signor D Raimondo di Sangro Principe di Sansevero sopra alcune scoperte chimiche indirizzate al Signor Cavaliere Giovanni Giraldi Fiorentino (ristampa a cura di A. Crocco, Regina edit., 1969

Dissertation sur une Lampe antique trouvée a Munich en l’année 1753, ècrite par Mr. le Prince de St’. Sevère pour servir de suit à la première partie de ses lettres a Mr. l’Abbé Nollet à Paris sur une decouverte, qu’il a faite dans la Chimie avec l’explication Phisique· de ses circostances, Napoli 1753. Mentre i due guariti da due forme di tumore con la pervinca sono troppo pochi per stilare una statistica.

[6] Teodoro Fittipaldi, Scultura Napoletana del Settecento, Liguori ed., Napoli, 1980.

[7]Una pagina poco nota della storia della medicina: le macchine anatomiche di Raimondo di Sangro, Estratto «Medicina nei secoli”, 1973.

[8] Benedetto Croce, Leggende di luoghi ed edifizi di Napoli in “Napoli nobilissima”, V 1896, 9, 11 pp. 132-5, 173-5, poi confluito in Storie e leggende napoletane, Bari, Laterza, 1948, pp. 336-8.

[9] Clara Miccinelli, Il Principe di Sansevero. Verità e Riabilitazione, ed. SEN, Napoli, 1982; Il tesoro del Principe di Sansevero. Luce nei sotterranei, ed. SEN, Napoli, 1984.

[10] Roberto De Simone, Il segno di Virgilio, Az. Autonoma Cura, Soggiorno e Turismo di Pozzuoli, Sezione Editoriale Puteoli, Pozzuoli 1982; Paolo Izzo, Virgilio Mago, Agorà, N. 3, marzo 2001.

“E il principe di Sansevero, o il ‘Principe’ per antonomasia, che cosa altro è in Napoli, per il popolino delle strade che attorniano la Cappella dei Sangro, ricolma di barocche e stupefacenti opere d’arte, se non l’incarnazione napoletana del dottor Faust o del mago salernitano Pietro Barliario, che ha fatto il patto col diavolo, ed è divenuto un quasi diavolo esso stesso, per padroneggiare i più riposti segreti della natura o compiere cose che sforzano le leggi della natura?”. Benedetto Croce, Storie e leggende napoletane, Bari, 1919.

[11]Ripreso pedissequamente, e non citato, ad es. da www, baroque.it/daltramontoallalba.it/ personaggi/principe sansevero.htma a cura di Luca Berto; e la nota “enciclopedia libera” wikipedia.org/wiki/ Raimondo_di_Sangro e parecchie altre (almeno una trentina che non sto a citare) sono a dimostrazione che molta parte del web gira senza che nessuno si preoccupi di menzionare la fonte da cui copia clamorosamente (anche gli errori!). Anche se molto più seri, i siti museosansevero.it/html/sperimentazioni.htm o dentronapoli.it/Leggende/ San_Severo. htm affermano: “La tradizione vuole si tratti di persone morte accidentalmente, cui Raimondo de Sangro avrebbe inoculato una sostanza di origine e composizione sconosciute, che avrebbe “metallizzato” tutte le vene, le arterie, i vasi capillari e alcuni organi” (cosa manifestamente erronea). Questi siti però riportano anche un’altra ipotesi, ossia quella della ricostruzione del sistema circolatorio eseguita da un medico anatomista al servizio del Principe, Giuseppe Salerno, che fu presidente l’Accademia degli Jatrofisici di Palermo. Cfr. Notizie sulle statue angiografiche e la vita di Giuseppe Salerno date ai suoi allievi da G Gorgone. Redatto presso gli eredi Graffeo, Palermo, 1830 e a detta dell’Origlia “Le dette due macchine, o scheletri, son opera del Signor Domenico Giuseppe Salerno, Medico Anatomico Palermitano.”

[12] “… ho concepito tutto ciò che si può concepire in questo ambito, ma non ho certamente fatto tutto ciò che ho concepito e non lo farò certamente mai”, Marchese de Sade, Lettera alla moglie, 20 febbraio 1791.

[14] Le leggende sulle trasfusioni di sangue dall’Egitto, alla Grecia e a Roma parlano solo di “bere il sangue” (cfr. Ippocrate sul mal caduco o Celso che consiglia di ingerire il sangue dei gladiatori ai malati di epilessia). Erofilo di Calcedonia nel Trattato di anatomie (III a.C.) parla di “trasfondere” (un termine che ha nulla a che fare con le trasfusioni, ma con l’alchimia) e Ovidio, da poeta, racconta che Medea riesce a far scorrere nelle vene del vecchio Pelia il sangue di un giovane. Un’altra favola è quella che Innocenzo VIII nel 1492 si fosse sottoposto ad una autentica “trasfusione” di sangue prelevato a tre ragazzini, anche se va detto che il papa morì la sera stessa e il suo medico personale fuggì da Roma e si rese irreperibile. La cosa gli era anche stata suggerita da Marsilio Ficino che nel De vita consigliava di suggere il sangue dei giovani. Poi ci sono le storie di vampiri, di patti di sangue scambiandosi il liquido della vita … ma il tutto senza siringa!

[15] Anche Matilde Serao è una giornalista che fa la storica per cui abbiamo un Federico II che mangia dei maccherono “co’ pummarola in coppa” e Cecco Di Sangro che torna dalle crociate mentre era al servizio del Re Filippo II di Spagna e Giuseppe Sammartino che muore prima di finire il Cristo Velato con un pugnale nel petto (invece muore nel suo letto nel 1793).

[16] Rino Di Stefano, Raimondo di Sangro, 
il principe maledetto (Il Giornale, Venerdì 18 Ottobre 1996).

[17] Oltretutto il cronista genovese non sa che l’anatomista-scultore Gaetano Zumbo fu a Genova dal 1695 al 1700 e con il chirurgo Guillaume Desnoues lavorò, ad esempio, al L’anatomia della testa e ad una partoriente a grandezza naturale.

[18] W. Harvey, De motu cordis et sanguinis in animalibus, Dedica al Dott. Argent in Opere di W. Harvey, a cura di F. Alessio, Torino 1963, p. 4.: “Ho a lungo meditato – egli scrive nell’ottavo capitolo del De motu cordissul fatto che la quantità del sangue trasfuso dal cuore è grandissima e relativamente breve il tempo impiegato a trasfonderlo; sul fatto che tutto il succo degli alimenti da solo non basterebbe ad evitare un progressivo svuotarsi delle vene; che, per contro, un eccesso di sangue nelle arterie lo romperebbe se il sangue, per una qualche strada, non ritornasse dalle arterie alle vene e di nuovo non rifluisse al ventricolo destro del cuore; ho cominciato fra me e me a riflettere se mai potesse sussistere una sorta di moto circolare. E ho più tardi trovato che tale è in effetti il vero moto del sangue”.

[19] William Harvey, Prelecliones, in Opera Omnia, Londra, 1766, foglio 80 v.

[20] Grazie al microscopio individuò gli alveoli polmonari e dallo studio dei capillari polmonari chiarì il meccanismo col quale avvengono gli scambi gassosi nella respirazione.

[21] Marcello Malpighi, Risposta del dottor Marcello Malpighi alla lettera intitolata: “De re­centiorum medicorum stu­dio dissertatio epistolaris ad amicum”, in Opere di Marcello Mal­pighi (a cura di L. Belloni), Torino, 1967, p. 516.

[22] II cuore è un muscolo ed è il motore della circolazione sanguigna. Le arterie sono canali che portano il sangue arterioso (ricco d’ossigeno e di sostanze nutritive) dal cuore alla periferia in direzione centrifuga; il sangue esce dal ventricolo sinistro, proveniente dall’orecchietta sinistra, e per contrazione viene spinto nell’aorta da dove non può più rifluire, perché la valvola mitralica ne impedisce il ritorno. Dall’aorta, per la pressione esercitata dal ventricolo, favorita dall’elasticità delle arterie e dalle contrazioni muscolari delle pareti, il sangue viene spinto in tutte le arterie (scorre sotto pressione, se vengono tagliate zampillano) e compie il suo giro attraverso i vasi del sistema circolatorio arterioso che, aumentando di numero, diminuiscono di diametro fino a diventare capillari microscopici. A questo punto si verificano gli scambi tra cellule che cedono ossigeno e sostanze nutritive e si caricano di anidride carbonica e prodotti vari del ricambio e, quindi, il sangue carico di scorie metaboliche del ricambio cellulare comincia il suo viaggio di ritorno che ha inizio dai primi capillari venosi che, per successive confluenze, formano vene di calibro più grande che portano sangue venoso, carico cioè di tossine. Per mezzo delle due vene cave, superiore e inferiore, il sangue venoso va all’orecchietta destra. Le vene sono quei canali che portano il sangue dalle parti periferiche al cuore in direzione centripeta. La piccola circolazione si svolge tra il cuore e i polmoni. Ha inizio dal ventricolo destro (pieno di sangue venoso proveniente dall’orecchietta destra) che si contrae (mentre la valvola tricuspide chiusa ne impedisce il ritorno) e attraverso le arterie spinge il sangue nei polmoni. A livello degli alveoli, grazie alla loro parete sottile e assorbente, per osmosi, avviene lo scambio dell’ossigeno nell’aria introdotta con la respirazione e dell’anidride carbonica del sangue venoso giunto tramite i capillari sanguigni alveolari, diramazioni dell’aorta polmonare. Così l’ossigeno dell’aria inspirata in parte va nei capillari alveolari venosi, mentre l’anidride carbonica passa nell’aria alveolare e viene espulsa dai polmoni nella fase espiratoria. In tal modo il sangue nocivo si trasforma in sangue ossigenato arterioso e affluisce dai capillari in venule polmonari, fino ad arrivare alle vene polmonari, che vanno a sfociare nell’atrio sinistro del cuore. Di qui il sangue scende nel ventricolo sottostante e ricomincia la grande circolazione.

[23] Le vene e le arterie raggiungono il massimo diametro vicino al cuore e più si allontanano dal cuore più la loro ampiezza diminuisce, mentre aumenta la loro ramificazione e suddivisione, in modo da risultarne alla fine una fitta rete di piccoli canali microscopici.

[24] Antonio Genovesi, Autobiografia, in “Archivio storico per le Province Napoletane”, 1924 (Feltrinelli, Milano, 1962).

[25] Luigi Settembrini, Lezioni di letteratura italiana, Napoli 1866-1872.

[26] cit. alla nota 5 Storie e leggende napoletane, Adelphi, Milano, 1990, pp. 327-28.

[27] Benedetto Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari, 1925.

[28] Teodoro Fittipaldi, Scultura Napoletana del Settecento, Liguori ed., Napoli, 1980.

[29] Cfr. Marta Poggesi, La collezione ceroplastica del Museo “La Specola” in Encyclopaedia Anatomica, 1999, Benedict Taschen, Colonia.

[30] Ad. es. “16.2.1851 – Iniezione con once 10 cera gialla, once 0,5 cinabro, dracme 1 trementina; oppure – 12.3.1851 -.12 albumi d’uovo, 12 danari di lacca di Monaco e 4 once di acqua distillata. Con questa materia fu iniettata l’arteria polmonare sinistra d’un uomo adulto, caricata con un peso di 24 libbre, mentre il polmone era mediocremente insufflato; o ancora In una capsula di vetro con cartello verde c’è della muscolatura con gomma arabica 2 parti, Zucchero 3 parti, Acqua distillata 30 parti. Bollito e ridotto a metà. Quando è freddo – tintura di iodio grammi 6”.

[31] Da Giovanni Manzolini (1700-1755) alla moglie Anna Morandi (1716-1774) non erano soltanto scultori, ma medici e anatomisti di vaglia. Ma vanno ricordati anche Clemente Susini (1754–1814), Paolo Mascagni (1752 -1815), Antonio Scarpa (1752-1832) e i “pietrificatori” Girolamo Segato (1792-1836), Efisio Marini (1835-1900), Paolo Gorini (1813-881), Francesco Spirito (1885-1962).

[32] E. Nappi, La Famiglia, il Palazzo e la Cappella dei Principi di San Severo, Riv. intern. di storia della Banca, n. II, 1975.

[33] Lettera Apologetica dell’Esercitato Accademico della Crusca, contenente la difesa del libro intitolato Lettere d’una Peruana. Per rispetto alla Supposizione de’ Quipu, scritta alla Duchessa di **** e dalla medesima fatta pubblicare, Napoli, 1750.

[34] Supplica di Raimondo di Sangro Principe di S. Severo Umiliata alla Santità di Benedetto XIV Pontefice Ottimo Massimo in Difesa e Rischiaramento Della Sua Lettera Apologetica Sul Proposito De’ QUIPU De’ Peruviani, in Napoli 1753.

[35] C. Curzio, Discussioni anatomiche pratiche sopra un raro morbo cutaneo, Napoli 1753.

[36] Clara Miccinelli, Il tesoro del Principe di Sansevero. Luce nei sotterranei, ed. SEN, Napoli 1984. Rieditato nel 1985 per la ECIC di Genova p. 57 e pp. 228-231.

[37] Anonimo, Breve Nota di quel che si vede in casa del Principe di Sansevero D. Raimondo di Sangro nella città di Napoli, 1766 (in Misc. Bibl. Naz. Na). Ristampato nel 2001 da Colonnese Editore, Napoli.


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