Buono da mangiare / buono da pensare

di Paolo Aldo Rossi

Der Mensch ist was er isstL’uomo è ciò che mangia

(L. Feuerbach, Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia, Lipsia, 1862 – Blätter fur Literarische Unterhaltung, 12 novembre 1850).

Commestibile: Buono da mangiare, sano e digeribile come un verme per un rospo, un rospo per un serpente, un serpente per un maiale, un maiale per un uomo e un uomo per un verme.

(Ambrose Bierce, The Devil’s Dictionary, 174)

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Scene di simposio in un cratere a campana a figure rosse (Pittore di Nikias, V secolo a.C.)

Platone, per descrivere il rapporto fra retorica e scienza della giustizia, che sono in antistrofe fra loro, le pone in rapporto alle analoghe coppie medicina-culinaria e ginnastica-moda:

Sotto la medicina scivolò la culinaria, che simula di sapere quali siano i migliori cibi per il corpo, onde se un medico e un cuoco dovessero scendere in gara, in mezzo a ragazzi o a uomini che, come ragazzi, siano senza senno, su chi dei due conosca meglio la buona o la dannosa qualità dei cibi, il medico morirebbe di fame … Alla medicina, dunque, ripeto, corrisponde quella forma di adulazione che è la culinaria; alla ginnastica, nello stesso modo, il saper vestire, dannosa cosa, ingannevole, ignobile, servile, che ingannando seduce con forme esterne, colori, unguenti, stoffe, e che, correndo dietro a una allotria bellezza, fa trascurare la bellezza autentica che solo si ottiene mediante la ginnastica.

[Gorgia 465 a-c]

Il termine “dieta” (dìaita o diaitào – modo di vivere e reggere la vita deriva da zào – vivere) in medicina sta per “regime alimentare” o “regola del nutrirsi” ed è una delle tre parti della medicina: la ginnastica (preventiva, ossia l’arte degli esercizi per rendere il corpo sano, forte), la dieta (regola di vita per mantenere la salute del corpo) e la terapeutica (cura delle malattie del corpo per riacquistare condizione fisica buona)[1]. “Lo scopo dell’arte medica – scriveva Claudio Galeno (130-200 d.C.) – è la salute, il fine è ottenerla”. Che il medico faccia ricorso alle cure, sia terapeutiche che chirurgiche, è naturale, perché l’uomo si ammala, ma fin che può tende a mantenere il “regime” ginnastico, igienico e dietetico.

E hygeia in greco vuol dire “scienza della vita sana” o della salute.

A differenza delle diverse “scienze” (sia formali, che naturali e umane), il cui fine è istituzionalmente noetico (la conoscenza di …), la medicina sembra avere finalità eminentemente pratiche (la cura della salute e della malattia); generalmente, essa viene considerata un’arte fortemente connotata dalla perizia dell’artista (il medico), il quale attinge nozioni dall’emporio del sapere “scientifico” e abilità pragmatiche dal bagaglio delle tecnologie, raggiungendo i propri obiettivi con un’irreprensibile applicazione della scienza e un corretto uso della tecnologia.

Nonostante tutto questo la medicina resta una scienza “umana”, perché il suo oggetto (o meglio universo d’oggetti) è l’uomo; ma è anche un sapere a sé, ossia che non si ferma al conoscere, ma esige necessariamente il fare.

La scienza medica basata sull’esame diretto del paziente malato (tèkhne klinikè vuol dire curare chi è a letto) è una disciplina di impianto “umanistico” per l’attività diagnostica e tecnologico per l’attività terapeutica (therapeuein vuol dire occuparsi di – sia farmacologicamente, sia chirurgicamente). La scienza della salute è un sapere storico per l’attività anamnestica e diagnostica, una scienza naturale per l’attività prognostica-predittiva e una tecnologia per l’attività terapeutica e chirurgica.

In primo luogo la medicina, come d’altronde fanno le cosiddette scienze umane, ricorre a metodi e a impianti epistemologici più simili a quelli della storiografia che a quelli della fisica o della chimica.

Nell’esame medico, la parte anamnestica si fonda sull’assortimento circostanziato, analitico, minuzioso e “auspicabilmente” completo di vicende, fatti, notizie sulla vita del paziente (e dei suoi ascendenti), sulle malattie anteriori a quel momento, sull’inizio e sui primordi e il decorso della patologia in atto; la parte diagnostica, invece, si fonda sull’identificazione di un quadro morboso in base ai sintomi descritti dal malato; infine, la parte semeiotica, che è il rilievo dei sintomi che caratterizzano i vari quadri morbosi di segni reperiti dal medico e in base ai risultati di prove e indagini di laboratorio. Solo la parte prognostica si impernia sulla previsione sul decorso e l’evoluzione di una malattia e, quindi, si avvicina ai metodi delle scienze naturali.

Sfortunatamente il binomio dieta-cibo si è sempre semanticamente più ristretto all’alimentazione (l’assunzione da parte di un organismo vivente – anche vegetale – delle sostanze indispensabili per il suo metabolismo e per le sue funzioni vitali quotidiane) che è una parte della vita, importantissima, anzi essenziale, ma non l’unica (come tutti sanno); il “modo di vivere” con il corpo sano fa intervenire l’attività fisica, l’igiene, la cura verso la salute e, naturalmente, la dieta.

Dieta (dimagrante si badi bene!) è diventato, per l’abitante dell’Occidente ricco (pingue e obeso), l’utopia e il pensiero dominante del “modo di vivere” moderno (magro è bello); il termine è diventato sinonimo degli alimenti, ipocalorici e snellenti, che un essere umano (o un animale) assume abitualmente per dimagrire, il che è equivalente a salute. Il rimanente degli uomini del pianeta (i 4/5) hanno un’alimentazione scarsa, insufficiente, carente, che vanamente contrasta la denutrizione e l’inedia. L’immaginazione quotidiana di una “vita” dove la fame e l’indigenza siano vinte è un antichissimo sogno dell’uomo del Paese di Cuccagna, mentre l’adiposo, il pingue, l’obeso che corre anche durante il sonno (per dimagrire) è il più moderno dei suoi incubi.

Cibo che non ingrassa è come la casta lussuria o una dietetica ingordigia: è un ossimoro (da ozùs = “acuto” e moròs = “sciocco”), una figura retorica del tipo l’ordine consiste proprio nel non rispettare l’ordine (pensiamo agli ossimori-slogan di George Orwell[2] del tipo: “la guerra è pace”, “la libertà è schiavitù”, “l’ignoranza è competenza”), una frase volutamente pensata per esprimere, con la combinazione di due termini antitetici, una realtà psicologica che non è fornita di un nome, ma indica alcuni vissuti particolarmente profondi (cfr. Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere).

Vi è un vecchio proverbio che in tutti i vernacoli enuncia: “Tutto quello che non intozza, ingrassa”, ovvero “Tücc coss che pasà, ingrasà”, che tradotto in lingua italiana diventa: “Quel che si inghiotte e lo si manda giù, fa bene” (in spagnolo è più forte: “lo que no mata, engorda”, “ciò che non ammazza, impingua”). Ossia ciò che è digeribile, assimilabile biologicamente, è salutifero e fortificante.

E tuttavia c’è un abisso tra il “non intozzare” e il “mangereccio” (tra quello che passa e il cibo) al punto che il vero modo di dire popolare sarebbe il lapalissiano: “Se non strangola, passa e quindi ingrassa”, mentre è meno evidente o tautologico se diventa: “Tutto ciò che è commestibile, allora è digeribile”.

Cosa vuol dire “è commestibile”? E’ un termine derivato dal latino comedåre = mangiare (dove il cum è un intensivo, ovvero “divorare”). Si dice “homo animal edax”, ossia vorace, come peraltro lo è ogni forma di vita.

Il cibo è definito dalle varie colture come “ciò che si mangia per nutrirsi” ma, a parte la cellulosa e i sassi (su cui sono tutti d’accordo – o quasi[3] – perché la bocca e l’esofago li rigettano e lo stomaco e l’intestino non li digeriscono[4]), vi sono degli “alimenti” per alcuni appetitosi e per altri disgustosi; questi sarebbero biologicamente digeribili, ma sono “cattivi da pensare” e quindi neppure avvicinabili alla bocca, nonostante siano mangiabili, di facile digestione e assimilabili (ad es. derrate che contengono proteine, enzimi, lipidi, glucidi, vitamine, sali minerali … fondamentali per l’uomo e quindi digeribili, gustosi, non tossici o dal punto di vista della chimica umana edibili, ma “culturalmente” non commestibili). Purtroppo il termine edule (il mangiabile) non rappresenta un dato di fatto universalmente verificato e verificabile, ma rimanda addirittura al come stanno le cose per un individuo o alcuni singoli o gruppi di persone, presi in determinati spazi geografici e in specifici tempi storici, in culture e civilizzazioni più o meno ampie. L’oggettivo, come dice la parola, è quel che si riferisce all’oggetto della conoscenza, mentre in questo contesto si parla solo di soggetti e per di più circoscrivendo l’ambito all’alimentazione differenziata dal cibo (che, come si sa, è qualcosa in più).

L’esecrazione degli Indù nei confronti di chi macella e mangia la carne di bovino ha origini storiche: i Veda, il popolo che dominò la parte settentrionale dell’India dal 1200 all’800 a. C., praticava il sacrificio rituale che finiva in grandi banchetti di carne e la loro casta sacerdotale, i Brahmani, vigilava attentamente sul tipo di animale che veniva macellato e i bovini erano fra questi. Quando fra il VI e il V secolo a. C. venne il Buddha, con le sue dottrine contro l’uccisione degli animali e il suo ricorso alla meditazione e alle buone azioni come strumenti di salvezza, allora l’induismo dovette diventare (ci volle però un millennio) quel che è oggi: il protettore del Bos Indicus cavalcato da Krisna. Non è soltanto però per ragioni polititiche-religiose, ma anche naturalmente economiche che non si mangiano i bovini: la vacca ti dà i vitelli, che diventano tori da riproduzione, vacche da latte e buoi da lavoro e tutti insieme concimano.

Anche la Grecia antica visse la medesima esperienza nei riguardi del sacrificio del bue da lavoro (come già abbiamo fatto e faremo vedere)[5].

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William Hogarth, Davanti al cancello di Calais, 1748.

Gli Ebrei hanno nell’Antico Testamento una fonte inesauribile di carni immangiabili e, anche se il maiale è il più immondo e inavvicinabile, i cataloghi del Levitico 11 e del Deuteronomio 14, 4-21 citano un centinaio di specie di animali non edibili fra quelli che stanno sulla terra, nell’acqua e nell’aria, tanto che si fa prima a dichiarare quelle mangiabili e, anche queste, solo se sono senza difetto e a certe condizioni di macellazione e di uso alimentare (ad es. mai la carne con il latte …). Per gli Israeliti ogni cosa deve essere al suo posto e il maiale non è un ruminante, ma ha lo zoccolo fesso e l’unghia divisa; il cammello e la lepre, che ‘ruminanti’ lo sono, non hanno però lo zoccolo fesso e quindi sono vietati; la talpa e la lucertola un po’ stanno sotto terra e un po’ sopra, le rane stanno dentro e fuori dell’acqua, il pipistrello sta nell’aria, ma è un quadrupede: tutti sono un abominio come i serpenti e i vermi che ‘strisciano’, come il topo, i pesci privi di pinne e di squame, gli insetti alati con quattro zampe non saltanti e gli uccelli che la Bibbia mette in una lista occasionale e incomprensibile …

Gli Islamici – di solito più laconici e sintetici – proibiscono, nel Corano, soltanto il porco, gli animali morti e il sangue (i cibi che non piacevano a Maometto sono soltanto sconsigliati).

Il Nuovo Testamento non proibisce alcuna cosa come non mangiabile e anche in questo è innovatore e rivoluzionario: “… tutto quanto entra nella bocca passa nel ventre e va a finire in una latrina, ma è quello che esce dalla bocca che viene dal cuore e contamina l’uomo” (Matteo 15.11).

Diversi popoli mangiano la carne di cavallo, esecrati da chi è ignaro del fatto che, a seconda dell’andamento dei prezzi, la carne equina viene inscatolata come cibo per cani o fornita ai benestanti ex-consumatori della mucca pazza preoccupati del prione, particella infettiva solamente proteica che porta il morbo di Creutzfeld-Jakob.

Pasteggiare a ciccia di cane, cosa che da noi viene aborrita moltissimo, per i cinesi è perfetto da pensare e da mangiare, tanto che il cane è detto con una perifrasi “capra senza le corna”. Nell’antico Egitto i canidi erano onorati come Anubi, nella Persia zoroastriana erano adorati e a Roma è una lupa a fare da balia ai gemelli, ma nell’Islam erano indegni di attenzioni e gli ebrei nel targum dello Pseudo Gionata raccontano che Esaù prepara un cane per il padre Isacco[6], il quale se ne ha parecchio a male dato che da quel piatto gli giunge un odore simile al fuoco della geenna.

Ma nel nostro mondo, dove ci si disgusta per gli Orientali e ci si scandalizza della “fame di carne” (o di “cadaveri”, come dicono i vegetariani-porfiriani), non turba poi tanto la dieta dell’amico dell’uomo (messa insieme da “esseri umani” che non vogliono fermarsi alla ‘roba’ nelle scatolette). Per esempio il sito “mangiaredacani.it” presenta una cinquantina di ricette per la bestiola a base di puledro, di oca, di maiale, di fegatelli vari, di tonno, di piccione, di vitello, di quaglia … mancano però i cani nel menù, istruiti come siamo del fatto che “cane non mangia cane”. Il gatto è un altro animale da compagnia (con una dieta da buongustaio) che nelle pubblicità televisive deve avere una confezione di Gatto Net, Gourmet Gold o di Friskies Gourmet o simili che “forniscono al tuo gatto tutto quello di cui lui ha bisogno per una nutrizione sana ed equilibrata”; e “come non resistere al meglio” e cioè al tonno rosso di Sicilia, al salmone di Scozia, ai bianchetti del Mediterraneo (si veda ad es. il sito “gourmet-cat.it/”).

Un tempo in campagna (ma, a quanto ne so, anche in città), ai gatti si lasciava prendere i topi e gli uccelli, gli si davano avanzi di pesce e di carne e una zuppa di pane e latte. Ma lo zar Nicola I di Russia, il “gendarme d’Europa”, faceva servire al suo gatto caviale affogato nello champagne, carne di ghiro francese, burro non salato, panna, uovo di beccaccia sbattuto e sangue di lepre! Vuoi che per “democrazia o sovranità dei cittadini” (e a ben due secoli di distanza dal decadente zar) anche tu non possa dare al tuo animale da compagnia[7] ­- il tuo pet – un menù da Vissani e da Marchesi!

Ma anche dai pesci rossi al boa costrictor, dai coniglietti alle tartarughe, dai piccoli roditori agli uccelli si sono pensate diete ad hoc. Si obietterà che il serpente mangia di solito i roditori, le tartarughe si saziano di gamberetti, alcuni uccelli si nutrono di grilli e di bruchi, le lucertole amano (nel senso che gli piacciono) le lumache … non ci sono problemi! La Pet Point vi spedisce tutto, facendovi solo presente che se avete problemi con il vostro boa costrictor, ma anche con il pitone reale, perché mangiano solo topi, galli, maialini, cani e cerbiatti vivi (secondo le dimensioni) allora potreste allevare altri rettili che gradiscono anche prede scongelate.

Oltre ai “prediletti beniamini” vi sono dunque anche gli animali da pasto: un grillo a meno di €.1,50, una tarma della farina al costo di €. 2, una lattina di pollo e gamberetti a €. 0.95, o una di tonno e uova a €.0,95, un ratto per il serpente a €. 2 … Ho riportato i prezzi più bassi che ho trovato (il ‘gourmet’ sarebbe troppo costoso anche – semel in anno – per la mia tavola: 20 euro per la Suprème gelée all’orata accompagnata da una Birra al manzo a 3 euro alla pinta).

Per fortuna esiste una dieta vegetariana e una vegana per gli animali da compagnia meno costosa, ma sempre un po’ troppo se confrontata con il reddito pro capite di un abitante del Terzo mondo che si aggira da 1 a 3 euro. Ma di questo parleremo fra breve; ricordiamoci però che le cifre sono davvero enormi: l’Italia spende ogni anno per i “quattro zampe” (dati Eurispes) 4,7 miliardi, di cui 1,2 miliardi per farli mangiare, ossia 1.825 euro all’anno o 150 euro al mese. Pensiamo che il PIL pro capite va dai $64.193 della Norvegia ai $107 del Burundi (e l’Italia sta al 19° posto con $30.200, dove gli stati che raggiungono la cifra di $5000 sono al 60° posto e quelli che stanno sotto ai $1000 sono dal 125° in giù)…. Dunque gli abitanti dalla Repubblica del Congo all’Honduras potrebbero costare come uno dei nostri animali da compagnia, gli abitanti di Stati dallo Zimbabwe all’Etiopia invece come 1/10decimo di questi. Provate ad allevare un cane (come il popolo del Terzo Mondo) con meno di 0,30 centesimi al giorno … è la fame! (non solo da lupi, ma anche da pecore).

E’ da mezzo secolo che il mondo europeo e nordamericano non ha più paura della fame, ma dell’alimento nocivo (ingrassante); la carestia e il suo fido compagno, l’inedia, non abitano più da noi (ce le siamo dimenticate), per cui la nota invocazione “A fame, a morbo, a bello libera nos Domine” è diventata “Dai pericoli del cibo che ci concedi in sovrabbondanza, liberaci o Signore”, mentre il Padre Nostro potrebbe cambiare in “Dacci oggi le nostre calorie bilanciate, a noi e ai nostri beneamati animali da compagnia, … e salvaci non solo dall’obesità”, ma dalla “ florida paffutaggine”.

Pensate, però, a quanti bambini del Terzo Mondo si sfamerebbero se i nostri animali da compagnia non li “strafogassimo” e li rimpinzassimo (come peraltro facciamo con noi stessi), ossia se continuassimo a nutrirli normalmente …

Ma cosa vuol dire ‘normale’ in questo mondo? Rifacendomi a Freud nel Breve compendio di psicoanalisi dovrei dire: “Il confine tra normalità e anormalità non è definibile scientificamente … ha solo un valore convenzionale” ed è una “convenzione” anche quella che accorda i diritti degli animali, di cui il primo è quello di essere “quel tipo di animale” e non un giocattolo nelle mani di un uomo-eterno-bambino che passa indifferentemente da un balocco per svagarsi a un prodotto di profitto per trarre guadagno.

Il cane da caccia, se si poteva, lo si nutriva anche a carne (non della cacciagione però!) e il mio gatto rubava quasi sempre il pesce che avevo appena pescato e, per quanto ci pensi, il termine “anormale” come offesa non mi veniva proprio; usavo quello di ‘bastardo’ e ‘ladro’, ma adesso dovrei usare quello di buongustaio e di gentil gatto.

Il simpatico felino, detto con un eufemismo “lepre da tetti” (molto amato dai vicentini, ma non per la sua avvenenza), è egli pure mangiabile (magari spergiurando, come erano soliti fare gli osti, che era coniglio o lepre), come la tartaruga delle Isole Tremiti e le rane del Vercellese, il ghiro nell’olla e il porcospino alla zingara.

800px-12-alimenti,carni_bovine,Taccuino_Sanitatis,_Casanatense_418Pensiamo anche ai cibi più stomachevolmente-appetitosi d’Europa: nel Biellese il brodo di mirauda, Coluber viridiflavus, il serpente più diffuso in Italia usato nel risotto; a Roma la paiata, quella parte dell’intestino di manzo denominato “duodeno” che comprende il chimo, una sostanza ‘molto saporita’, ma a ben pensarci un poco disgustosa; in Sardegna u casu marzu, il famoso formaggio marcio con i vermi o le larve prodotti dalla mosca casearia, e su callu, la crema di latte fermentato nello stomaco dei capretti; in Maremma si usa il merdocchio (nei paesi nordici Schnepfedreck), ossia le feci della beccaccia, principale ingrediente del patè venatorio chiamato appunto in questo modo e spalmato sui crostini di pane abbrustoliti nell’aglio; in Sicilia il lattume, ricavato dalle gonadi del tonno (in parole povere lo sperma di colore crema che viene consumato tagliato a fettine e condito); in Francia il retto di maiale ripieno (non vi dico di cosa perché sono già alla ripugnanza al cibo), le fois gras (ottenuto da oche immobilizzate e rimpinzate di cibarie fino alla nausea – la malattia del navigante) e le classiche escargots (lumache) e l’ortolano (o il beccafico, di cui è proibitissima la caccia); in Spagna le rabo de toro al vino (che poi sono i testicoli con cui si fanno anche la cima alla genovese e altre specialità italiche, dalla finanziera allo zimino, che prevedono gli attributi del toro, del puledro, del montone, del gallo … e qualsiasi altro che li abbia); nel Nord Europa le uova di pesce, dal caviale di storione Almas (venduto in scatole d’oro a € 24.000 al Kg., cioè a una cinquantina di milioni del vecchio conio), di aringa o la bottarga (batarek o poutargue), molto più avvicinabili economicamente, ma in Lapponia si fa l’estratto in brodo del pene del maschio di renna (afrodisiaco, basta non pensarci!).

E poi troviamo l’haggis, il tradizionale pasto degli highlander scozzesi (già utilizzato dagli Sciti e descritto da Omero), una specie di mortadella fatta con le interiora, grasso e carne dell’ovino dove si utilizza lo stomaco dell’animale come pentola di cottura, mentre in Islanda ci sono ’hákarl, carne di squalo putrefatta, o l’hrútspungur, testicoli di montone tenuti a bagno nel siero di latte e poi schiacciati fino a dare loro la forma di una torta. Tutta roba al cui confronto il garum dei Romani, la tradizionale salsa con le interiora putrefatte di vari pesci, diventa appetibile e stuzzicante[8], come anche le mammelle e la vulva di scrofa e di mucca, che lavate per bene possono far parte dei componenti della ‘normale’ trippa. Ma il massimo è il kopi luwak, il risultato della digestione e della defecazione di un mammifero indonesiano il cui nome scientifico è luwak (il termine kopi lo lascio a voi, ma temo che abbia a che fare con gli escrementi). Il fatto è che questo ‘caffè cioccolatoso’ che sta spopolando nella Milano-in è prodotto con la deiezione di questo incrocio tra una puzzola e uno zibetto, goloso di bacche di caffè.

E per allettanti vivande di casa nostra, al momento è bastante. Resta da dire che se una certa cultura accetta questi cibi, addirittura come delle raffinatezze, allora l’oggettività del termine “alimentare” o resta ingestione da parte di un organismo vivente delle sostanze indispensabili per il suo specifico metabolismo (le molecole proteiche sintetizzabili formate da un catalizzatore caratteristico o enzima – en zymò), o diventa, come sempre, intersoggettività o “oggettività allargata” (dai rabbini, dagli ahiatollah, dai “guru”, “santoni” e dai “capiscuola” delle varie sette alimentari dove ognuno ha le proprie regole).

Ma il mondo, a volte, è molto più vario e “avariato” dell’Europa: c’è il Fugu, un pesce palla nipponico altamente tossico che contiene la tetradocsina (è micidiale a una dose di 2 milligrammi); questo onorevole Tetraodontiforme, la cui tossina risiede nel fegato, nella pelle e nelle ovaie (e dio sa dove!) può uccidere 30 uomini che non credevano che la sostanza fosse 1250 volte più letale del cianuro (però è buono da morire! E difatti lo si cucina), ci sono i guzanos messicani, saporiti vermi biancastri che si nutrono esclusivamente di agave, sfrigolati alla piastra (è lo stesso verme che accompagna il mezcal e che si offre all’ospite d’onore), mentre i cuitlacoche (termine di origine nàhuatl: cuitlal “escremento” e cochtli “dormiente”) sono dei piccoli funghi neri, prodotti dalle pannocchie di mais quando marciscono che poi vengono abbrustolite, e la 
chilate è l’iguana preparata con cacao o marinata con tortillas.

In Oriente (dove si cucinano insetti, topi, cani, serpenti, pinne di pescecane, zampe d’orso, scarafaggi, vermi …) troviamo il pene di tigre, consumato come afrodisiaco (usanza oggi in via di abbandono non si sa se per l’estinzione del grande felino o per via del Viagra), il caviale di formica, una vera prelibatezza tailandese, il sangue di cobra ancora vivo, una raffinatezza indonesiana, lo stufato di topo con fagioli neri, una ghiottoneria cinese, gli scarafaggi fritti dello Sri Lanka e la frittura di tarantole, ricoperte di zucchero e aglio, ma anche pelle di vipera fritta con il suo sangue mescolato con vino rosso, lo stomaco dell’oloturia (le viscere espulse dall’ano che vengono in seguito rigenerate), servito con una salsa a base di soia, vino di riso e sakè, l’aragosta viva (nessun centro vitale viene leso e continua a muoversi mentre la si mangia, come accade con il cervello di scimmia in un film di Indiana Jones).

Ma non sia mai che dimentichiamo l’Africa (sono poveri, ma hanno classe e ricercatezza in cucina): il topo allo spiedo, con tanto di peli e coda, del Malawi, la Masonja, verme che vive sull’albero di Mopani ed è il piatto nazionale del Botswana (che si può mangiare nature, cioè vivo, oppure fritto), le chenilles en papilotte, involtino di bruco dell’Africa centrale, le larve di scarabeo tostate, le cavallette e il shuku, piatto a base di termiti fritte del Sudafrica etc. etc…

E non so se Hannibal the Cannibal, che mangiava il cervello pulsante delle sue vittime ancora in vita, sia stato l’eroe eponimo di questa saga del disgusto orripilante o l’ultimo dei fedeli seguaci.

Diceva tuttavia A. Bierce: “Cannibale: Un gastronomo di vecchia scuola che conserva gusti semplici e aderisce alla dieta naturale del periodo pre-porco”.

La variabilità delle scelte alimentari umane – nota giustamente C. Fischler – procede forse in gran parte dalla variabilità dei sistemi culturali; se non mangiamo quel che è biologicamente commestibile è perché non tutto ciò che si può mangiare è culturalmente commestibile[9].

L’uomo non è un animale onnivoro – come il ratto, il maiale, lo scarafaggio –, sebbene il suo apparato digerente sia in grado di assimilare sostanze nutritive di provenienza sia animale sia vegetale (e anche minerale); mangia solo ciò che la sua “cultura” gli consente. A differenza del serpente che deve mangiare i topini vivi o del cavallo che deve mangiare la biada o la mucca forzatamente vegetariana, l’uomo “falsamente-onnivoro” non mangerà mai una bistecca di manzo se induista, una braciola di maiale se islamico, una lepre in salmì se ebreo, uno stufato di cane se europeo, un puledro se americano, un branzino o un’orata se vegetariano, una parmigiana di melanzane se vegano … ma anche quel che non gli piace, lo disgusta e gli fa schifo come quelli che mai metterebbero in bocca delle lumache, un piatto di trippa, il gorgonzola e il camembert, o gli fa male come il latte ai lattasi deficienti o il glutine ai celiaci, i funghi per i micofobi … senza andare a disturbare vermi, larve, serpenti, topi e anche frutti dall’odore sgradito. In altre parole: l’insieme delle conoscenze, dei valori, dei costumi, delle usanze, dei modelli di comportamento, delle attività materiali … che caratterizzano il modo di vita di un singolo uomo all’interno del proprio gruppo sociale sarà esattamente quello che gli dice come comportarsi con il cibo.

E’ l’umanità nel suo complesso (quindi un’entità astratta) a mangiare tutto, ciò che è digeribile anche ciò che da un punto di vista religioso, etico, politico … è scorretto, sconveniente, incivile, immorale … ciò che non fa bene, ciò che è indigesto, ciò che dà la nausea, ciò che è escrementizio …

Il “cattivo da pensare” o il “culturalmente cattivo” fa diventare il cibo “disgustoso, indigesto, rivoltante, ossia immangiabile o non edibile. Certo la vacca, avendo il rumine, non può mangiare un maialino al forno o la tigre, che è carnivora, non può essere convertita a mangiare funghi con patate … ma loro – si sa! – sono animali!

E’ ancora la Cina ad ammaestrarci con un suo famoso proverbio: “Tutto ciò che si muove, è commestibile per l’uomo”.

Il movimento o kìnesis – dice Aristotele nella Fisica (III,1, 201 a 10) – “è l’entelecheia di ciò che è in potenza”, ossia l’atto perfetto o la compiuta realizzazione della dùnamis.

Quindi se ti muovi da solo, e per forza tua, hai la vita o, meglio, nella tua vita – dicono i Poeti – c’è la presenza del dio. La vita (lo Stagirita non fa distinzione fra animale o vegetale, a parte il diverso modo di locomozione e il tipo d’anima) è “il principio tale per cui (coloro che vivono) subiscono aumento o diminuzione nelle direzioni opposte” (De Anima II, 413 a 27). Certo che le differenze ci sono, ma sono di coscienza e facoltà mentali, di comprensione e di giudizio, d’interiorità e di moralità … non di un vago “spirito vitale”.

Il “mangiare con” è “condividere la parte debita” (dais è il banchetto – cibi, bevande, parole, gesti, musica e danze … – ma anche quel che ti è dovuto dalla sorte, daitos, ad esempio il posto a tavola, le parti che puoi-devi mangiare, da quale coppa puoi bere … ).

L’avestico aeta (il greco è aisa, da cui aitia la causa) significa “parte dovuta” nel senso di destino (quel che ti tocca). Non cieca fatalità, ma rigida necessità: la colpa è causa della pena o, per meglio dire, dall’effetto (pena) è possibile risalire alla causa (colpa). Diaitao (condurre l’agire in un certo senso) comporta l’aitia (la parte che ti è spetta e che a te si impone). Singolarmente, i due concetti di aitia (causa) e dike (giustizia) convergono verso la coppia monosemica di “ciò che a ciascuno spetta (dike) – la parte che da ciascuno si esige (aitia)”.

Anticamente c’erano i “vegetariani”, cioè coloro che hanno bandito l’uso della carne animale per ragioni etiche e religiose; oggi potremmo contare diverse forme di vegetarianesimo: i classici che non mangiano la carne, i miele-latto-ovo-vegetariani, i vegani che hanno espulso dalla loro dieta qualsiasi prodotto che venga dagli animali, i vegetaliani che possono essere granivori se si nutrono solo di cereali, frugivori soltanto di frutta e crudisti se mangiano soltanto verdure crude …, i macrobiotici (che secondo Gorge Obsawa si cibano solo di cereali integrali cotti a vapore e zuppe di verdure, verdure stagionali fresche cotte o crude e legumi, insaporiti dal sale marino, salsa di soia e infusi di erbe, ma a volte anche il pesce!) e i jainisti, che prevedono una forma estrema di vegetarianesimo: la dieta del fedele esclude anche molti vegetali e persino l’acqua viene filtrata al fine di non ingerire involontariamente piccoli organismi.

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Il fugu

E’ chiaro che chi fa queste scelte per ragioni religiose ed etiche è un uomo che vive la sua responsabile e scrupolosa decisione con tutto se stesso e privatamente (e sapendo che la maggioranza è carnivora non fonderà certo un partito che condanna chi si comporta contro il suo credo). Diversamente da queste persone “credenti e osservanti”, esistono gli ortoressici – chi ha un corretto appetito! -, dove ‘corretto’ significa una posizione integralista in alcuni aspetti dell’alimentazione, e i salutisti, che vorrebbero discutere scientificamente di dieta vegetariana uguale alla salute. Siamo disposti a confrontarci, ma prima ci devono rispondere perché adottano una massa di glutine che sa vagamente di carne (il seitan), se poi la carne non devono mangiarla[10]. O perché mangiano le patate, quando ogni massaia sa che i getti (che di solito vengono sui tuberi non curati) sono la vitalità delle piante, convinti che la vita vegetale sia un qualcosa di inferiore. Una patata ci mette 20 minuti a bollire e una aragosta è pronta in tre minuti (ed è vero che vengono poste nell’acqua vive!).

E qui finiamo ricordando il sogno fatta negli Atti degli Apostoli. Il pescatore Simone (chiamato Pietro da Gesù) ha la grande visione di una tovaglia dove vi sono tutti gli animali della terra e gli è comandato di mangiare ciò che Dio ha purificato, quasi a ribadire ciò che ha già predicato Cristo in Matteo 15.11, ovvero non è quel che entra in bocca che è profano, ma quello che esce dalla tua bocca che ti contamina:

[Cornelio] Un giorno verso le tre del pomeriggio vide chiaramente in visione un angelo di Dio venirgli incontro e chiamarlo [dicendogli di andare da Simone detto anche Pietro]… Pietro salì verso mezzogiorno sulla terrazza a pregare. Gli venne fame e voleva prendere cibo. Ma mentre glielo preparavano, fu rapito in estasi. Vide il cielo aperto e un oggetto che discendeva come una tovaglia grande, calata a terra per i quattro capi. In essa c’era ogni sorta di quadrupedi e rettili della terra e uccelli del cielo. Allora risuonò una voce che gli diceva: Alzati, Pietro, uccidi e mangia!. Ma Pietro rispose: No davvero, Signore, poiché io non ho mai mangiato nulla di profano e di immondo. E la voce di nuovo a lui: Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più profano.

(Atti 10-3-14)

O vorremo espungere un brano del Nuovo Testamento perché non ci piace o perché fa parte di un sogno?


Note

[1] Cfr. P.A. Rossi – I. Li Vigni, Gola, mater amatissima, Alimentazione e arte culinaria dall’età tardo-classica alla fine del Medioevo De Ferrari, Genova, 2005. Ite mensa est (con Ida Li Vigni) MU.se, Genova-Savona, 1991, i numeri di Anthropos & Iatria, Rivista Italiana di Studi e Ricerche sulle Medicine Antropologiche e di Storia delle Medicine, 2-IX, 2005, pp 52-59. 4-X, 2006, pp, 100-108 3- XI,  2007 pp. 15-19 e in corso di stampa. P.A. Rossi, In punta di forchetta c’è la pasta. Pentagora, Savona, 2014.

[2] George Orwell (1903 –1950) è stato uno scrittore, giornalista e anarchico britannico. “Se i fatti invece dicono il contrario, allora bisogna alterare i fatti. Così la storia si riscrive di continuo. Questa quotidiana falsificazione del passato, intrapresa e condotta dal Ministero della Verità, è necessaria alla stabilità del regime … La mutabilità del passato è il dogma centrale”.

[3] Per quanto la geofagia abbia radici antichissime e ancor oggi alcuni popoli dell’Africa Centrale e del Kenia ingeriscano una media di 30 gr. di argilla; l’usanza, per altro, si è trasmessa dall’Africa agli Stati Uniti del Sud dove il caolino, un’argilla bianca, è venduto al supermercato in sacchetti pronti all’uso (anche se porta sulla confezione la dicitura “prodotto non edibile”). Ad es. i gusci dei molluschi – in maggioranza carbonato di calcio – non attirano molti estimatori fra i gourmets, tanto meno una torta di sabbia – in maggioranza silicio.

[4] L’intestino umano, ad esempio, non riesce a lavorare con consistenti quantità di cellulosa e quindi la rifiuta (è il caso della corteccia degli alberi, della pasta di legno, dell’erba, delle foglie, della paglia, delle stoppie, del cotone …). E’ per questa ragione che le estremità legnose dell’asparago si lasciano nel piatto senza chiamare in causa ragioni culturali.

[5] P. A. Rossi – L. Congiu, Il sacrificatore in Grecia: medico per l’anima o cuoco-macellaio per il corpo, “Anthropos & Iatria”, 8/1 pp 70/83; si veda inoltre Guy Berthiaume, I ruoli del mageiros. Studi sulla macelleria, la cucina e il sacrificio nella Grecia antica, Leida, 1982; M. Detienne- J.P. Vernant, La cucina del sacrificio in terra greca, trad. it., Boringhieri, Torino, 1982 [La cuisine du sacrifice en pays grec, Gallimard, Paris, 1979].

[6] Robert Hayward, Targum Pseudo-Jonathan to Genesis 27:31, JQR 84 (1993) 177-188.

[7] Scusatemi se non uso il termine pet – il prediletto -: è perché è fin troppo inflazionato da Tomografia ad Emissione di Positroni, Preliminary English Test, Pet Sounds, pet theories ... e purtroppo anche dalla pet therapy, che è una cosa seria.

[8] P. A. Rossi – I. Li Vigni: Il Garum. Il sapore che vince e saperi, “Anthropos & Iatria”, 10/4 pp. 100-104.

[9] Fischler C., L’onnivoro: il piacere di mangiare nella storia e nella scienza, 1992, Mondadori, Milano, pag. 22.

[10] E’ un po’ come essere fedeli alla moglie e tutte le volte che si fa all’amore con lei si sogna di essere a letto con Kim Basinger. Speriamo che non scoprano il Durian, il frutto di un albero che cresce in Indonesia, che ha una polpa biancastra giallognola e un odore assolutamente esecrabile, simile a quello della carne putrefatta lasciata sul fornello del gas aperto, o il Poi hawaiano, una pasta commestibile e dal sapore decisamente forte ottenuta dalla velenosa radice del taro, un tubero che cresce sulle isole. Oppure hanno già scoperto il Gorgonzola e il Camembert, l’acquagià (il latte cagliato in Padania) o la prescinsoeua (cagliata di latte, leggermente acida, in Liguria).


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