Ipazia: una paideia scientifica

di Paolo Aldo Rossi

Premessa

Della vita e delle opere di Ipazia d’Alessandria – va subito detto – non sappiamo quasi nulla. Le persone che l’hanno conosciuta direttamente e che l’hanno ricordata de visu atque auditu, sia pur brevemente nelle loro opere, sono stati: suo padre, il matematico-astronomo Teone, il suo amico e allievo il filosofo Sinesio da Cirene e il poeta e grammatico Pallada di Alessandria, ma al contrario conosciamo completamente e totalmente come fu brutalmente assassinata nel marzo del 415 in tempo di Quaresima[1].

Questi fatti [la bestiale uccisione e il rogo dei resti della filosofa] avvennero nel quarto anno dell’episcopato di Cirillo, nel decimo del consolato di Onorio e nel sesto di Teodosio; era il mese di marzo durante il periodo del digiuno. (Socr. Hist. Eccl., VII 15)[2]

Ipazia secondo Fortunino Matania

Ipazia secondo Fortunino Matania

Chi scrive è un avvocato e teologo cristiano, contemporaneo di Ipazia, nato nel 380 a Costantinopoli, molto ben informato dei fatti che, pur non avendola conosciuta personalmente, le dedica l’intero capitolo 15 del VII libro della sua Storia ecclesiastica, una continuazione, nei secoli IV e V, della “storia” di epoca costantiniana di Eusebio di Cesarea.

Per quanto riguarda la data di nascita di Ipazia sappiamo da Sinesio di Cirene (370-413) che era coetaneo e ammiratore di colei ch’egli chiamava “madre, sorella e maestra, mia benefattrice in tutto e per tutto, essere e nome quant’altri mai onorato” (Sin. Ep. 16 pag. 109)[3] e che Ipazia negli anni 393-395 era stata sua insegnante e doveva avere fra i 30 e i 35 anni. Giovanni Malalas[4] (491 – 578 circa, cioè un secolo dall’uccisione di Ipazia) afferma che “gli alessandrini, col permesso del vescovo, bruciarono Ipazia, un’attempata donna [45-50 anni], filosofa insigne, da tutti considerata grande” (Cronografia 14 – PG 97, 536).

Il lessico della Suda[5] sostiene che ella «Ella nacque, crebbe e ricevette la sua istruzione ad Alessandria» e «fiorì durante il regno d’Arcadio», ossia dal 395 al 408[6].

I suoi scritti sono andati totalmente perduti o incorporati in pubblicazioni di altri autori, forse perché era donna, forse perché era pagana e contraria ai vescovi cristiani, ma certamente erano lavori notissimi all’epoca se Sinesio scrive:

Se Omero disse che i viaggi di Odisseo presentavano il vantaggio di fargli vedere molte città e conoscere 1’indole di molti esseri umani, e ciò nonostante egli approdasse non presso genti evolute, ma presso i Lestrigoni e i Ciclopi, tanto più, certamente, la poesia avrebbe celebrato il nostro viaggio che ha permesso a me e a te di fare esperienza di cose che, al sentirle raccontare, sembravano incredibili. Abbiamo potuto vedere con i nostri occhi e ascoltare con le nostre orecchie la donna che a buon diritto presiede ai misteri della filosofia (Sinesio. Epistole,137 pag 331).

E Socrate Scolastico ribadiva che questa donna superava e sopravanzava tutti gli studiosi del proprio tempo per paidea: sapere e competenza (grazie all’istruzione e alla preparazione si ottiene il contenuto di detta formazione: la cultura e l’educazione).

 Ad Alessandria viveva una donna di nome Ipazia; era figlia del filosofo alessandrino Teone. Aveva raggiunto tanta cultura ed educazione (vertice di sapienza) da oltrepassare di gran lunga tutti i pensatori del suo tempo; subentrò nella scuola platonica, ripristinata da Plotino, insegnando a chi lo voleva tutte le scienze filosofiche. Per questo motivo affluivano da lei da ogni parte tutti coloro che aspiravano a ragionare in modo filosofico (Socrate Scolastico, Storia Ecclesiastica VII, 15).

Infine Filostorgio[7] (368 – 439 Borisso in Cappadocia), che apparteneva alla corrente ariana degli Anomei, contemporaneo di Teone, affermava che Ipazia:

apprese dal padre le scienze matematiche, ma divenne molto migliore del maestro soprattutto nell’arte dell’ osservazione degli astri e finì per essere lei stessa maestra nelle scienze matematiche

 e Damascio[8], l’ultimo scolarca dell’Accademia di Atene che nella Vita Isidori scrive: 

… di natura più nobile del padre, non si accontentò del sapere che viene attraverso le scienze matematiche e cui era stata introdotta da lui, ma, non senza altezza d’animo, si dedicò anche alle altre scienze filosofiche. La donna era solita indossare il mantello del filosofo ed andare nel centro della città. Commentava pubblicamente Platone, Aristotele, o i lavori di qualche altro filosofo per tutti coloro che desiderassero ascoltarla. Oltre alla sua esperienza nell’insegnare riuscì a elevarsi al vertice della virtù civica.

Il vanto di Alessandria: la scuola filomatica

Ammiano Marcellino (332-400) visita Alessandria intorno al 370 e vi trova un considerevole centro di ricerca e di studi: la scuola medica accanto a quella matematica continuavano e proseguivano 
l’insegnamento e continuavano ad attrarre studenti da ogni parte dell’impero romano. Proprio il mondo alessandrino 
aveva favorito il progresso e lo sviluppo dell’interesse e dell’impegno dell’astronomia riguardo la 
medicina e i medici venivano chiamati iatro-matematici e si servivano dell’astrologia per la diagnosi, la prognosi e la terapia.

Nella scuola matematica e in quella filosofica del IV secolo d.C. si apprendevano 
non solo il neoplatonismo di Plotino e Porfirio, di Giamblico ed Edesio e fondamentalmente di Ipazia e del suo allievo Sinesio di Cirene, ma l’astronomia (dalla prima ipotesi eliocentrica di Aristarco ai trattati di Ipparco e al Sistema matematico di Tolomeo), la geometria (dagli Elementi di Euclide alle Coniche di Apollonio di Perga e alla Synagoge di Pappo), l’aritmetica o la teoria dei numeri (da Eratostene e Nicomaco alle equazioni di Diofanto), la fisica e la tecnologia (Archimede ed Erone), la 
musica (arte di formare con suoni la melodia e l’armonia), … ma anche l’astrologia e la divinazione, discipline che beneficiarono di grande reputazione e popolarità fino 
a quando non cominciarono ad essere screditate e diffamate dai capi e dai 
seguaci della chiesa cristiana. Le stesse scienze furono abbandonate dalla geografia fino all’astronomia, ad es. la dottrina degli Antipodi fu rifiutata dai Padri della chiesa, presso i quali predomina il concetto della terra piana e del cielo emisferico: si vedano le espressioni di Sant’Agostino (De Civit. Dei, XVI, 9), contemporaneo di Ipazia,  e quelle di Lattanzio (Divinar. Institut., III, 23), del secolo III-IV,  nella loro sprezzante negazione:

 Qui tutto ciò che giace eclissato, è portato alla luce dal raggio geometrico. Né ancora presso di loro s’è estinta del tutto la musica, né tace 1’armonia e si ravviva ancora presso alcuni, sebbene rari, lo studio dei movimenti del mondo e delle stelle, mentre altri sono dotti nella scienza dei numeri; inoltre pochi sono esperti della dottrina che indica le vie del destino. Invece gli studi di medicina – del cui aiuto sovente si sente bisogno in questa nostra vita né parca né sobria – così si sviluppano di giorno in giorno, che, sebbene l’opera stessa lo provi, ad un medico, senza dimostrazione alcuna, è sufficiente perché la sua arte sia apprezzata affermare di aver frequentato la scuola di Alessandria[9]

Teone era uno dei fondatori della Filomazia[10], un metodo per far “amare” lo studio, l’apprendimento e la comprensione; e questo aveva una funzione pedagogica ma anche di politica mediatrice tra le varie scuole filosofiche e religiose.

Ma fu proprio Ipazia a portare avanti questa scuola e il suo martirio, che “avvenne per l’invidia e per la sua straordinaria sapienza”[11], rimase nella storia come un evento memorabile e importante.

 Così accadde che un giorno Cirillo, vescovo della setta di opposizione, passò presso la casa di Ipazia, e vide una grande folla di persone e di cavalli di fronte alla sua porta. Alcuni stavano arrivando, alcuni partendo, ed altri sostavano. Quando lui chiese perché c’era là una tale folla ed il motivo di tutto il clamore, gli fu detto dai seguaci della donna che era la casa di Ipazia la filosofa e che lei stava per salutarli. Quando Cirillo seppe questo fu così colpito dalla invidia che cominciò immediatamente a progettare il suo assassinio e la forma più atroce di assassinio che potesse immaginare.[12]

E sappiamo che Ipazia aveva una scuola, non come il padre nel Museo (di cui era membro), ma in casa propria ch’era diventata il più grande centro di insegnamento di Alessandria. E qui si vede come il luogo ch’era divenuto il centro nodale dove si trovava la comunità scientifica ellenistica, almeno fino al IV secolo, si deve spostare in una casa privata perché non vi è più continuità giuridica con il Museo e la sua Biblioteca Interna:

Perciò coloro che desideravano pensare in modo filosofico correvano da lei da ogni parte. Per la magnifica libertà di parola e azione, che le veniva dalla sua cultura, accedeva in modo assennato anche al cospetto dei capi della città e non era motivo di vergogna per lei lo stare in mezzo agli uomini. Infatti, a causa della sua straordinaria saggezza, tutti la rispettavano profondamente e provavano verso di lei un timore reverenziale.[13]

Fu una grande matematica, astronoma e filosofa neoplatonica, medica e musicista. Come per Diofanto, il padre dell’algebra, vissuto ad Alessandria alla fine del III secolo e gli inizi del IV, del quale non sappiamo esattamente nulla, ma per fortuna che della sua opera principale Arithmetica, un trattato in tredici volumi, almeno sei libri[14] sono giunti fino a noi.

Fu autrice con il padre di un’esposizione dell’Almagesto di Tolomeo, ossia il libro III dei Commentaria in Ptolemaei syntaxin mathematicam (se non interamente i restanti 10 libri), anche di un commento ai 13 libri della versione greca della Aritmetica di Diofanto e un’interpretazione a Le coniche di Apollonio di Pergamo (in otto volumi) e a lei vengono attribuite due invenzioni: un areometro e un astrolabio piano.

Nella Intestazione al III Libro del suoi Commentaria in Ptolemaei syntaxin mathematicam, Teone[15] scrive:

Commento di Teone di Alessandria al terzo libro del Sistema matematico di Tolomeo. Edizione controllata[16] dalla filosofa Ipazia, mia figlia [17]

Cosa vuol dire “Edizione controllata”? (paranagnwsqeijshß paranagnosteises, ossia leggere confrontando e distinguendo è un termine tecnico). Si veda cosa scrive lo stesso Teone: “Commento di Teone di Alessandria al primo (secondo) libro del Sistema matematico di Tolemeo, edizione fatta da lui stessoe il termine è “gegenemenes” gegenemejnhß (occuparsi di un qualcosa) Teone Comm. in Ptol syn. math., voI. III, p. 807). Ipazia non curò l’edizione, ma ne fece una nuova, oggi diremmo una “edizione critica” che rifacendosi al Sistema matematico di Tolemeo era un qualcosa di mai visto. Sapendo esattamente che essa divenne molto migliore del maestro non solo nelle scienze matematiche ma in quelle filosofiche.

Teone, celebre per i suoi studi astronomici, poteva aver conosciuto Diofanto e certamente conobbe Pappo Alexandrino, il più noto matematico della sua epoca, autore di un commentario o un compendio di geometria: Synagoge o Collectiones mathematicae[18]. Solitamente la storia della matematica riporta di un Teone come bravo insegnante, ma privo di originalità e ingegnosità, cosa vera anche per Pappo, ma il padre di Ipazia curò nientemeno che gli Elementi di Euclide, oltre i Data e l’Ottica, e il Sistema matematico (l’Almagesto o manuale di astronomia in 13 volumi) di Tolomeo e infine Le tavole facili o pratiche, elementari, astronomiche del grande geografo e astrologo alessandrino. Il fatto che commentasse e fornisse l’edizione corretta delle opere antiche non ne faceva un compilatore, ma un insegnante e un ricercatore di vaglia e la figlia Ipazia che “finì per essere lei stessa maestra nelle scienze matematiche” e “coloro che desideravano pensare in modo filosofico correvano da lei da ogni parte” era una autentica caposcuola di educazione filomatica.

Fu probabilmente questo stesso desiderio di rendere più accessibile e comunicabile l’antico e sempre attuale sapere matematico – scrive Gemma Beretta – che spinse Teone a scrivere opere che oggi vengono classificate nell’ ambito delle pseudo-scienze.[19]

E qui dovremmo parlare delle accuse di magia, occultismo e sortilegio contro Ipazia:

apparve ad Alessandria – scrive il vescovo etiope Giovanni di Nikiu – una filosofa femmina, una pagana di nome Ipazia, che dedicava tutto il suo tempo alla magia, agli astrolabi e agli strumenti musicali, e abbindolava molte persone con i suoi inganni satanici.[20]

 e della sua amicizia con Sinesio sia per quanto attiene alle scienze segrete e arcane come l’astrologia, la divinazione, l’interpretazione dei sogni che per quello che si rivolge al neplatonismo sia filosofico che magico-religioso (la trasformazione e il rinnovamento dell’anima verso le realtà superiori non può attuarsi più, come per Plotino e Porfirio, con le forze umane, ma come dichiarava e insegnava Giamblico [Calcide, 250 – 330)] attraverso le pratiche teurgiche):

Abbiamo potuto – dice Sinesio – vedere con i nostri occhi e ascoltare con le nostre orecchie la donna che a buon diritto presiede ai misteri della filosofia.

E colei che presiedeva ai misteri della filosofia era Ipazia, “la Dike sapiente ed acuta”[21] “colei che nella sua saggezza sa ben controllare i momenti opportuni”.

Damascio racconta che era molto bella e avvenente”[22], ma restò sempre vergine, sebbene facesse innamorare molti uomini e oltre alla sua esperienza nell’insegnare riuscì a elevarsi al vertice della virtù civica. Ricorda la donna della quale parla Platone:

 Io vidi come venirmi dinanzi una donna bella e di piacevole aspetto in candida veste; e mi chiamava per nome, e mi diceva: ‘o Socrate, nel terzo dì da questo, a Ftia tu giungerai, ricca di zolle (Critone 44 A-B).

La donna che, giunta al più alto grado della virtù pratica, divenuta cioè “giusta e saggia”, ha assunto natura divina: la dea Dike, l’amata vergine giusta. Sinesio la chiama “sapiente e acuta”, e Pallada – come s’è vedremo – “astro incontaminato della sapiente cultura”.

Ma di questo riparleremo, a lungo, in seguito.

 Teone, dopo avere commentato i grandi del passato, pensa anche a suo figlio Epifanio, che come matematico era diverso dal padre e dalla sorella, e scrive Il Piccolo commentario alle Tavole facili in modo che l’esposizione di questa materia risultasse più chiara:

Il metodo ragionato di calcolo secondo le Tavole facili, mio piccolo Epifanio, è stato da noi esposto con precisione in un altro trattato in cinque libri. Ma poiché la maggior parte di quanti seguono le nostre lezioni per apprendere la materia non solo non sono capaci di seguire in esso in maniera soddisfacente le moltiplicazioni o le divisioni dei numeri ma sono inoltre completamente privi di conoscenza per quanto riguarda le dimostrazioni geometriche, ci siamo sforzati di fare anche per loro un commentario nel modo più metodico possibile, esponendo soltanto i metodi in modo che l’esposizione di questa materia risultasse più chiara[23]

Teone scrive anche Sui presagi e sull’osservazione degli uccelli e sulla voce dei corvi e secondo Giovanni Malala «interpretò opere astronomiche e gli scritti di Ermete Trismegisto e Orfeo» (Malala. Chron., XIII col. 511), Sull’inondazione del Nilo, Sul sorgere del Cane, un commento ai Fenomeni di Arato e al Piccolo astrolabio.

E Ipazia? Noi sappiamo da Suda (che dipende da una fonte del VI secolo più vicina ai fatti descritti):

… scrisse un commentario a Diofanto, il Canone astronomico, una memoria sulle Coniche di Apollonio.

Va detto che le Aritmetiche di Diofanto e le Coniche di Apollonio erano il massimo della matematica (aritmetica e geometria) dell’epoca, e che il commentarle, annotarle e interpretarle era un qualcosa che un insegnante doveva fare, ma confondere “il Canone astronomico” con testi di Tolomeo ci lascia dei dubbi.

A quale opera si riferisce il lessico? Non è il Sistema matematico di Tolomeo perché, come sappiamo, l’aveva già commentato con Teone e come sappiamo da Filostorgio, cultore ingegnoso della scienza degli astri, Ipazia divenne molto migliore del proprio maestro nella matematica:

Egli conosce l’astronomia e i fenomeni celesti. Egli stesso descrive con la precisione di uno specialista la forma e l’orbita di diverse meteore da lui osservate. Di una di queste afferma che alcuni per ignoranza l’avrebbero scambiata per una cometa. Egli evidentemente crede a profezie sulla base di fenomeni celesti e deve aver avuto un’ approfondita conoscenza dell’ astrologia[24]

Quindi chi, dunque, poteva sapere quanto uno studioso coevo, competente ed esperto in astronomia, del rapporto che Ipazia aveva con la scienza degli astri? Perché molti storici e filosofi della stessa epoca hanno sottolineato fortemente che Ipazia abbia oltrepassato, non solo in filosofia, ma anche in matematica e in astronomia tutti i suoi contemporanei? Perché la sua scuola era frequentata da studenti provenienti da tutto l’impero al punto che Sinesio afferma “Al giorno d’oggi l’Egitto tiene desti i semi di sapienza ricevuti da Ipazia[25]? Il fatto che avesse letto, insegnato, tradotto e commentato (con il padre e l’intera sua cerchia) il Sistema matematico di Tolomeo può probabilmente suggerire che Ipazia avesse intuito che l’idea di Aristarco di un sistema eliocentrico fosse quella giusta?

Chi abbia letto le Coniche di Apollonio e l’Aritmetica di Diofanto sa che contengono a posteriori il modello base di una matematica che si sarebbe sviluppata da lì a mille anni e l’essere applicate all’astronomia avrebbe dato avvio a una rivoluzione che ci avrebbe portati alla moderna scienza. E’ così che Galileo nella Terza giornata del Dialogo scrive:

Non posso trovar termine all’ammirazione mia come abbia possuto in Aristarco e nel Copernico far la ragione tanta violenza al senso, che contro a questo ella si sia fatta padrona del loro credere. [Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1632 – VII, 355].

L’astronomia è di per se stessa una scienza – scrive nel De dono Sinesio – di alta dignità, ma può forse servire da ascesa a qualcosa di più alto, da tramite opportuno, a mio avviso, verso l’ineffabile teologia, giacché il beato corpo del cielo ha sotto di sé la materia e il suo moto sembra ai sommi filosofi essere un’imitazione dell’intelletto. Essa procede alle sue dimostrazioni in maniera indiscutibile e si serve dell’aiuto della geometria e dell’aritmetica, che non sarebbe disdicevole chiamare retto canone di verità.[26]

Progressi sulle conoscenze ereditate fino ad allora sono rivendicate dall’allievo di Ipazia, Sinesio, che nel 399 scriveva che Ipparco, Tolomeo e i successivi astronomi «lavorarono su mere ipotesi, perché le più importanti questioni non erano state ancora risolte e la geometria era ancora ai suoi primi vagiti»: ora si è ottenuto di «perfezionarne l’elaborazione». E Sinesio fornisce un esempio di tali perfezionamenti e dell’unione di interessi teorici e pratici dall’astrolabio da lui fatto costruire e «concepito sulla base di quanto mi insegnò la mia veneratissima maestra […] Ipparco lo aveva intuito e fu il primo a occuparsene, ma noi, se è lecito dirlo, lo abbiamo perfezionato» mentre «lo stesso grande Tolomeo e la divina serie dei suoi successori» si erano contentati di uno strumento che servisse semplicemente da orologio notturno.[30]

La casa astrale della Vergine

ὅταν βλέπω σε, προσκυνῶ, καὶ τους λόγους. τῆς παρθένου τὸν οἶκον ἀστρῷον βλέπων εἰς οὐρανὸν γάρ ἐστι σοῦ τὰ πράγματα, Ὑπατία σεμνή, τῶν λόγων εὐμορφία, ἄχραντον ἄστρον τῆς σοφῆς παιδεύσεως

Quando ti vedo mi prostro davanti a te e alle tue parole, vedendo la casa astrale della Vergine, infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto Ipazia sacra, bellezza delle parole, astro incontaminato della sapiente cultura

(Pallada, Antologia Palatina, IX, 400)

 

Ipazia di Alessandria, figlia di Teotecno (figlio di Dio), ponderando un nomen omen (Ὑπατία sta per «eminente» o «eccelsa»), ossia la sublime per bellezza, per signorilità ed educazione, per cultura e sapere, morì per questo orrendamente trucidata da parte dei cristani fanatici mandati dal loro vescovo Cirillo per “ὕβϱις”, ossia “prevaricazione” o “tracotanza”, un’azione criminosa svolta allo scopo di umiliare il nemico, la cui causa è data non da un vantaggio ma dal godimento che l’autore dell’atto traeva dalla scelleratezza di quel che stava facendo, mostrando la sua egemonia, fatta con violenza e brutalità, sulla vittima ben più eccellente ed eminente, però colpevole di dimostrare in ciò l’insignificanza e irrilevanza del nefando seviziatore.

Ammiano Marcellino (Antiochia di Siria, 330 – Roma, 400 circa) ricordava, da pagano, la setta dei cristiani, appena uscita dalle persecuzioni, ma senza alcuna animosità, da storico: “Non ci sono belve tanto infeste agli uomini da essere più dei cristiani addirittura esiziali a se stessi” (Res Gestae, XXII, cap. 5, par. 4)[N]ullas infestas hominibus bestias, ut sunt sibi ferales plerique Christianorum expertus.

Con “rescritto di tolleranza” del 313 d. C. a Milano, Costantino per l’Occidente e Licinio per l’Oriente concedevano a tutti i cittadini dell’Impero, e quindi ovviamente anche ai cristiani, la libertà di venerare le proprie divinità e quindi di dare attuazione alle misure contenute nell’editto di Galerio del 311, con il quale era stato definitivamente posto termine alle persecuzioni. “… ut daremus et Christianis et omnibus liberam potestatem sequendi religionem quam quisque voluisset, quod quicquid <est> divinitatis in sede caelesti, nobis atque omnibus qui sub potestate nostra sunt constituti, placatum ac propitium possit existere” (Lattanzio, De mortibus persecutorum, capitolo XLVIII). Costantino non proibì mai il culto pagano e dichiarò rispetto verso i credenti della vecchia religione e, quando divenne cristiano (e se poi lo divenne), portò avanti l’idea di tolleranza verso tutti (e d’altra parte non è possibile affermare se la sua conversione sia avvenuta sinceramente o per calcolo politico).

Diocleziano aveva promulgato quattro editti (303-304) contro i cristiani (gli ultimi), ma il 30 aprile 311 Galerio aveva emanato a Nicomedia un editto in cui riconosceva la nuova religione e Costantino e Licinio, per “la tranquillità comune e pubblica” e “l’interesse alla pace religiosa”, avevano confermato l’obbligo che “fosse assicurato il rispetto e la venerazione della Divinità” qualunque essa fosse, per tutti e in particolare per i cristiani, “in modo che qualunque potenza divina e celeste esistente possa essere propizia a noi e a tutti coloro che vivono sotto la nostra autorità”. Costantino morì a Nicomedia (22 maggio 337) ma le cose non mutarono, anche sotto il nipote Giuliano il Filosofo (ultimo imperatore pagano) che i cristiani presentarono come un persecutore e apostata, anche se nel suo regno, in realtà, vi fu tolleranza nei confronti di tutte le religioni, comprese le diverse dottrine cristiane.

All’inizio del suo regno Teodosio (379 d. C.) insieme agli altri due Augusti, Graziano e Valentiniano II, promulgò nel 380 l’editto di Tessalonica, con il quale il credo niceno diveniva la religione unica e obbligatoria dello stato (Codex Theodosianus, 16, 1.2) e per quanto riguarda Alessandria (392) i decreti anti-pagani (Codex Theodosianus, 16, 10. 10 e 16.10.11) in cui il sacrificio agli dei pagani era equiparato al crimine di lesa maestà e quindi alla pena di morte.

Era tutto capovolto e rovesciato e così il terribile vescovo Teofilo di Alessandria diede inizio alla distruzione del Serapeo (“la religione dei templi ad Alessandria e nel santuario di Serapide fu dispersa al vento”. Eunapii, Vitae sophistarum, Vita di Eustazio, VII, 11, 3-5, Roma, 1956, 39-39) di cui dice Ammiano Marcellino: “E’ così adorno di atrii con amplissimi colonnati, di statue che sembrano vive e di opere di ogni genere, che non v’è nulla sulla terra di più fastoso all’infuori del Campidoglio” (Res Gestae XII, 12). E non solo il tempio, ch’era meta di pellegrinaggi da Roma e da Costantinopoli, ma anche la grande biblioteca di Alessandria fu incendiata e distrutta dai monaci di Wadi el Naarum, fanatici e faziosi, guidati da un papas cui non mancavano enormi risorse sia d’uomini che di mezzi economici. Il tempio venne demolito dalle fondamenta per cui dice Eunapio: “lasciarono solo il pavimento e solo perché le pietre erano troppo pesanti” e questo “per zelo e solerzia di Teofilo, l’imperatore ordinò di distruggere i templi degli elleni in Alessandria e questo avvenne per l’impegno dello stesso Teofilo” (Socrate Scolastico, Storia Ecclesiastica V, 16.). A parlare sono rispettivamente: uno degli ultimi filosofi ellenistici (Eunapio lo ierofante del culto eleusino [347–414] e Socrate σχολαστικός [380-440], cristiano, teologo e avvocato.

Quando morì Teofilo, nel 412, che “fece tutto quello che era in suo potere per recare offesa ai misteri degli elleni”, fu innalzato al trono episcopale di Alessandria suo nipote Cirillo: questi, uomo violento e autoritario, ebbe “molto più potere di quanto ne avesse avuto il suo predecessore” e “si accinse a rendere l’episcopato ancora più simile a un principato di quanto non fosse stato al tempo di Teofilo”. nell’accezione che con il nuovo papasla carica episcopale di Alessandria prese a dominare la cosa pubblica oltre il limite consentito all’ordine episcopale” (Socrate Scolastico, cit., VII, 7). Perseguitò e tormentò i katharoi (i puri, chiudendo le loro chiese e sequestrando i loro beni), i messalliani (asceti penitenti dediti alla povertà, dando fuoco ai loro conventi), gli ebrei (cacciandoli dalla città in cui erano la minoranza maggioritaria e dalle sinagoghe diventate chiese cristiane), i pagani (gli elleni, sterminandoli e massacrandoli, cfr, Ipazia) come d’altronde faceva con i suoi nemici cristiani (condannando il vescovo siriano Nestorio e deponendo l’arcivescovo e teologo bizantino Giovanni Crisostomo) e i “miscredenti” (Oreste prefetto di Alessandria il quale “s’indignò molto per l’accaduto e provò un gran dolore perché una città tanto importante era stata completamente svuotata di esseri umani” – Socrate Scolastico, cit., VII, 7)  e addirittura con tutti quelli che non la pensavano come lui ideando una prima soluzione finale per gli ebrei. In una lettera inviata al monaco Teodoreto, vescovo di Cirro, si legge 

di questo “faraone cristiano”: “Insomma finalmente è morto quest’uomo terribile. Il suo commiato allieta i sopravvissuti ma sicuramente affliggerà i morti.”

Questa è storia documentata, dalla quale esce un Cirillo ridimensionato a politico mascalzone e la vicenda di Ipazia un evento da criminali e non da santi.

Ma quando parla il Papa “ex cathedra[27], l’episcopus servus servorum Dei, è infallibile e chi non ci crede è oggetto di maledizione e di bando dalla comunità religiosa: ἀνάϑεμα.

Nel Concilio di Costantinopoli II del 553 d.C. il papa Vigilio non era presente (anzi era stato prima messo a domicilio coatto e poi scomunicato, alla fine lasciato a Roma); al suo posto Eutichio presiedette il sinodo e decretò: “Cirillo che è tra i santi, quello che ha predicato la retta fede dei cristiani”; nel 1882 il terribile vescovo fu proclamato Santo e Dottore della Chiesa, “dottore dell’Incarnazione”, da Papa Leone XIII[28] e lo riafferma, a più di un secolo di distanza, Joseph Ratzinger: “seguendo le tracce dei Padri della Chiesa, incontriamo una grande figura: san Cirillo di Alessandria … fu più tardi definito custode dell’esattezza – da intendersi come custode della vera fede – e addirittura sigillo dei Padri” (Benedetto XVI. Udienza Generare Piazza San Pietro
 Mercoledì, 3 ottobre 2007).

Sebbene la comunità dei fedeli Copta, Romana e Bizantina lo venerasse come tale (ma all’epoca ἄγιος era il puro o venerando e non il sanctus, ossia il “sancito” dalla suprema autorità religiosa), il cattolicesimo lo ha proclamato Dottore della Chiesa solo a un millenio e mezzo di distanza e da parte di un papa che non brillava certo per tolleranza e carità, seguito da un altro pontefice (Benedetto XVI) che è un grande teologo e quindi di Cirillo conosceva gli scritti dottrinari (http://www. Documenta catholica omnia eu/20300370-0444 Cirillus Alexandrinus, Sanctus. html), ma non ha studiato la vita di questo “papas” violentissimo e furfante.

Vediamo questa storia utilizzando fonti contemporanee a Ipazia o fonti più tarde (al massimo del X secolo) che riportavano i fatti avvenuti all’inizio del V secolo, documentati come fatti storicamene avvenuti, avendo presenti i libri persi ma presenti nella memoria degli autori citati[29].

Oreste era il praefectus augustalis Alexandreae et Aegypti, ossia il governatore della provincia romana d’Egitto scelto direttamente dall’imperatore a cui senza intermediari rendeva conto e, unico caso, aveva l’imperium militiae, ovvero il comando sulle truppe cittadine, ma anche il vescovo aveva la sua milizia privata, i parabolani[30] e gli esaltati suoi sostenitori alessandrini:[31]

Alcuni monaci dei monti di Nitria, il cui spirito ribolliva dai tempi di Teofìlo, che iniquamente li aveva militarizzati …, ed erano da allora divenuti zeloti, decisero nel loro fanatismo di combattere in nome di Cirillo

Il vescovo aveva la legge dalla propria parte: la costituzione del 4 febbraio 384 dove il clero veniva a essere soggetto al solo foro ecclesiastico.

Nel 414, nel corso di un’assemblea popolare, taluni ebrei denunciarono al prefetto Oreste un certo “maestro di grammatica Ierace” quale suscitatore di contrasti e discordie; questi era un sostenitore del vescovo Cirillo, “il più attivo nel suscitare gli applausi nelle adunanze in cui il vescovo insegnava”, ma secondo Giovanni di Nikiu, il vescovo copto, che è dalla parte di Cirillo: “un cristiano che possedeva comprensione ed intelligenza e che era solito dileggiare i pagani[32]. Ierace venne arrestato e torturato, al che Cirillo reagì minacciando i capi della comunità ebraica, e gli ebrei reagirono a loro volta assassinando alcuni cristiani. Era la solita storia fra ebrei e cristiani e le ragioni erano soprattutto economiche, legate al monopolio dei trasporti marittimi che l’imperatore aveva concesso ad ambedue le comunità, mettendole così l’una contro l’altra.

Cirillo prese la palla al balzo, facendo bandire ed esiliare tutti gli ebrei da Alessandria (si parla di 100.000 persone):

Gli ebrei che dal tempo di Alessandro il Macedone abitavano questa città dovettero allora tutti emigrare, spogliati dei loro beni, e si dispersero chi qua, chi là.

Il praefectus augustalis si rivolse, come era nei suoi poteri, all’imperatore e rifiutò i tentativi di accomodamento del vescovo alessandrino anche perché la soluzione non c’era per via del fatto che “una citta tanto importante era stata completamente svuotata di esseri umani.

A quel punto Cirillo, avendo schiacciati tutti i suoi nemici, doveva attaccare Oreste e renderlo inoffensivo.

Oreste era un cristiano (e anche Giovanni di Nikiu, pur nella sua parzialità, lo afferma, ossia “aveva smesso di andare in chiesa, com’era in precedenza sua abitudine”) che per ragioni di stato doveva essere neutrale, ma non poteva far finta di niente di fronte a un simile pogrom contro gli ebrei.

Cirillo riunisce i parabolani dallo spirito arroventato e il popolino i quali entrano in azione in massa contro il corteo di Oreste:

… usciti in numero di circa cinquecento dai monasteri e raggiunta la città, si appostarono per sorprendere il prefetto mentre passava sul carro. Accostatisi a lui, lo chiamavano immolatore [σφαγεῖς] ed elleno, e gli gridavano contro molti altri insulti. Egli allora, sospettando un’insidia da parte di Cirillo, proclamò di essere cristiano e di essere stato battezzato dal vescovo Attico. Ma i monaci non badavano a ciò che veniva detto e uno di loro, di nome Ammonio, colpì Oreste sulla testa con una pietra.

A quel punto, essendo stato ferito il praefectus augustalis, la suprema autorità civile, si radunarono i cittadini di Alessandria che cacciarono i parabolani e imprigionarono Ammonio conducendolo da Oreste che lo fece torturare:

… rispondendo alla sua provocazione pubblicamente con un processo secondo le leggi, spinse a tal punto la tortura da farlo morire. Non molto tempo dopo rese noti questi fatti ai governanti. Ma Cirillo fece pervenire all’imperatore la versione opposta … Comunque chi aveva buon senso, anche se cristiano, non approvò l’intrigo di Cirillo. Sapeva, infatti, che Ammonio era stato punito per la sua tracotanza e non era morto sotto le torture per costringerlo a negare Cristo.

Il vescovo fece sistemare la salma di Ammonio in una chiesa, di fronte ai propri partigiani, e modificatogli il nome in Thaumasios, l’ammirevole, lo innalzò al rango di martire cristiano, come se fosse deceduto per sostenere e testimoniare il proprio credo religioso. Cirillo, avendo visto che nulla avveniva secondo i suoi piani, “si adoperò per far dimenticare al più presto l’accaduto con il silenzio”; e così modificò i suoi programmi.

Qui inizia l’invidia, perche non è solo una calunnia, ma una vera e propria “hybris”, una condotta biasimevole perché dannosa e nociva dell’onore altrui, ossia un qualcosa che esce dalla sfera dell’uomo per ricadere in quella delle bestie.

Cirillo si accorge che Oreste non può essere affrontato e aggredito personalmente essendo il rappresenate dell’imperatore, per cui si configurava il delitto di lesa maesta e quindi fatto martire Ammonio – Thaumasios perché aveva testimoniato Cristo (a colpi di pietra!) mette tutto a tacere cambiando obiettivo.

E’ qui che compare Ipazia per la prima volta nella tragica vicenda che avrà come fine il suo massacro, la quale:

… fu vittima della gelosia politica che a quel tempo prevaleva … s’incontrava alquanto di frequente con Oreste, l’invidia mise in giro una calunnia su di lei presso il popolo della chiesa, e cioè che fosse lei a non permettere che Oreste si riconciliasse con il vescovo» (Socrate Scolastico, VII, 15)

Ed è qui che vicenda si complica: si dice che la filosofa pagana facesse di tutto per impedire che il praefectus augustalis si rappacificasse con il vescovo, usando addirittura le arti magiche. Tutto questo non è riportato espressamente da fonti cristiane o pagane contemporanee, ma soltanto dai fautori di Cirillo che credono in questa accusa ingiustificata, proprio perché l’imputazione di magia comporta la pena di morte per il codice Teodosiano e la persecuzione religiosa contro i pagani è quasi sempre mascherata da oppressione del crimine di magia[33] dove il popolino è convinto di farsi giustizia da solo. Questa credenza o meglio pregiudizio è in circolazione fra il popolo e nell’ambiente dei cirilliani tanto da diventare presso la chiesa copta la versione veritiera e Giovanni di Nikiu, il rettore dei vescovi dell’Alto Egitto, la riprende nel VII secolo dando di Ipazia una testimonianza, da un punto di vista settoriale, di cui molti cattolici, ancora oggi, sono convinti[34].

Invece Socrate Scolastico afferma che “Ftonos personificato si levò in armi contro di lei …”(VII, 15). Ftonos era il demone dell’invidia e della gelosia che genera la sofferenza fatta nascere non solo dall’errore umano (il quale non fa altro che affrettare il percorso verso la catastrofe) quanto piuttosto da un sovrapporsi di questo con l’invidia degli dei che scombina ogni progetto deliberato.

Nonno di Panopoli, ultimo poeta ellenistico e contemporaneo di Ipazia e di Socrate (però schierato con Cirillo), scrive le stesse parole:

Ma la Gelosia, spiando il letto di Zeus, signore del ciclo, e la gestazione di Semele da cui nascerà un dio, s’ingelosisce di Bacco, anche se è ancora nel ventre materno e incapace d’amore, tutta presa dal sentimento che ispira, è colpita dal suo stesso veleno[35].

Era il mese di marzo del 415 e correva la Quaresima, tempo di digiuno e di penitenze, e i parabolani erano infuriati e furibondi; fra loro circolava e si diffondeva l’insinuazione e l’accusa infondata che la “maga-filosofa-pagana” fosse l’unica responsabile del dissidio fra le due massime autorità alessandrine:

E quegli zeloti, quegli esseri dallo spirito incandescente, il cui capo era un certo Pietro il Lettore, concepirono un piano e tesero un’imboscata alla donna una volta che stava rientrando a casa. La tirarono giù dalla carrozza e la trascinarono fino alla chiesa che prende il nome dal cesare imperatore. E qui la spogliarono delle vesti, la massacrarono usando cocci aguzzi, la fecero a brandelli. E trasportati quei resti al cosiddetto Cinaron, li diedero alle fiamme. E fu una non piccola infamia questa compiuta da Cirillo e dalla chiesa di Alessandria. Perché assassìni e guerriglie e cose simili sono qualcosa di totalmente estraneo allo spirito di Cristo. (Socrate Scolastico, VII, 15 – PG 67 col 769)

A parlare non è un pagano, un giudeo, un eretico o un ariano come Filostorgio, un coevo che dice “La donna fu fatta a brandelli per mano di quanti professavano la consustanzialità” (Historia Ecclesiastica, Patrologia Graeca, vol. LXV) o un monofisita del VI secolo come Giovanni Malala che dice “avuta licenza dal loro vescovo, gli alessandrini massacrarono e bruciarono Ipazia” (Ioannis Malalae, Chronographia de Gruyter, Berlin) ma un avvocato cristiano contemporaneo, vicino alla Corte di Costantinopoli, disturbato e disgustato dalla chiesa di Cirillo (come, peraltro, ce ne furono tanti).

L’ultimo scolarca dell’Accademia di Atene, Damascio (480 ca –550 ca) era andato intorno al 485 ad Alessandria, quando era ancora forte il ricordo di Ipazia e di Cirillo, il quale “si rose a tal punto nell’anima che tramò la sua uccisione, in modo che avvenisse il più presto possibile, un’uccisione che fu tra tutte la più empia” [πάντων φόνων ἀνοσιώτατον] (Damascio, Vita Isidori, Hildesheim, Olms 1967, 79, 24-25).

Così accadde che un giorno Cirillo, vescovo della setta di opposizione, passò presso la casa di Ipazia, e vide una grande folla di persone e di cavalli di fronte alla sua porta. Alcuni stavano arrivando, alcuni partendo, ed altri sostavano. Quando lui chiese perché c’era là una tale folla ed il motivo di tutto il clamore, gli fu detto dai seguaci della donna che era la casa di Ipazia il filosofo e che lei stava per salutarli. Quando Cirillo seppe questo fu così colpito dalla invidia che cominciò immediatamente a progettare il suo assassinio e la forma più atroce di assassinio che potesse immaginare. Un giorno che Ipazia come suo solito tornava a casa da una delle sue pubbliche apparizioni, le piombò improvvisamente addosso una moltitudine di uomini imbestialiti. Questi veri sciagurati, incuranti della vendetta dei numi e degli umani, massacrarono la filosofa. E mentre ancora respirava un po’ le cavarono gli occhi. Fu una macchia enorme, un abominio per la loro città. E l’ira dell’imperatore si sarebbe abbattuta violentissima su di loro, se Edesio non fosse stato corrotto, così da sottrarre i macellai [σφαγεῖς = immolatori] alla loro pena. (Suida Lexicon, Adler, Lipsia, Teubner 1967-71 IV pag. 644, 32 e 645 1-12)

Dopo il massacro di Ipazia fu avviata un’indagine alla Corte di Costantinopoli dove governava di fatto Elia Pulcheria, sorella di Teodosio II (401-450), un imperatore di 12 anni, che era molto vicina alle posizioni del vescovo (era cristiana devota e aveva fatto voto di castita) e quindi Cirillo riesce a ottenere l’insabbiameno per la disonestà e la corruzione dei funzionari imperiali (Damascio, 81, 7-8.). Giovanni Malalas afferma che “gli alessandrini, col permesso del vescovo, bruciarono Ipazia, un’attempata donna, [aveva fra i 45 e i 55 anni] filosofa insigne, da tutti considerata grande” (Cronografia 14 – PG 97, 536).

Certamente la versione degli eventi data dai partigiani di Cirillo e giunta alla Corte dell’Imperatore era ben diversa: questi utilizzarono la tradizionale accusa di magia per la quale c’era la pena di morte nel diritto romano (principalmente durante l’età imperiale)[36].

Vediamo cosa dice, riprendendo il tutto da fonti del V secolo, il vescovo copto Giovanni di Nikiu:

… apparve ad Alessandria una filosofa femmina, una pagana di nome Ipazia, che dedicava tutto il suo tempo alla magia, agli astrolabi e agli strumenti musicali, e abbindolava molte persone con i suoi inganni satanici. E il governatore della città la onorava esageratamente; perché lei aveva sedotto anche lui con la sua magia. E così lui aveva smesso di andare in chiesa, com’era in precedenza sua abitudine. E non solo, ma aveva portato dalla parte di lei molti credenti. E lui stesso riceveva i miscredenti nella propria dimora.

 Ipazia, “la donna pagana che aveva stregato il popolo della città e il prefetto con i suoi incantesimi” doveva essere messa a morte, ma essendo Oreste “sedotto anche lui con la sua magia” e dagli inganni satanici dovevano punirla i credenti guidati da un chierico irreprensibile anche sotto l’aspetto dottrinario:

Una moltitudine di credenti in Dio si levò sotto la guida di Pietro il Lettore – uomo che su Gesù Cristo professava dogmi  ineccepibili sotto ogni aspetto – e presero a ricercare la donna pagana che aveva stregato il popolo della città e il prefetto con i suoi incantesimi. E quando vennero a sapere in che luogo si trovava, si misero in marcia per andare a punirla e la trovarono seduta su un alto scranno. E dopo averla strappata dalla sua cattedra la trascinarono con loro fino a portarla nella grande chiesa chiamata Cesareo. Si noti che questo avveniva nei giorni del digiuno. E tutti presero a strapparle le vesti, la e poi la fecero trascinare [dietro un carro] attraverso le strade della città, finché morì. Allora portarono il suo corpo in un luogo chiamato Cinaron e lo diedero alle fiamme. E tutto il popolo cristiano circondò il patriarca Cirillo e lo acclamò “nuovo Teofilo”, perché aveva liberato la città dagli ultimi residui di idolatria.

Filostorgio ci racconta “La donna fu fatta a brandelli” [διασπασθῆναι] e Socrate “la massacrarono usando cocci aguzzi e la fecero a brandelli” [διασπάω = fare a pezzetti, dilaniare] e Damascio (riportato da Suda) “una folla di uomini spietati e feroci che non ‘temono né la punizione divina né la vendetta umana’[Omero] la aggredì e la tagliò a pezzetti, e mentre ancora respirava un po’ le cavarono gli occhi, commettendo così un atto oltraggioso e disonorevole contro il loro paese d’origine”

La morte di Ipaziae è una vera ed propria θῦσία, un rito sacrificale, una cerimonia sacra celebrata sull’altare del dio cristiano nel suo tempio (una volta chiamato il Cesareo, ma poi cristianazzato). Il vocabolo ἱερεύς (hiereus) significa tanto il sacerdote quanto il sacrificatore di offerte, ma per i cristiani è il “ministro di Dio” che usa il pane e il vino, mentre il termine sphageis [σφαγεῖς] “sacrificare” o quello di thysia [θῦσία] lo si usa presso i parabolani di Cirillo come uno dei peggiori insulti contro i pagani elleni. Il termine ἱερεῖον sta per vittima “immolata” quanto “macellata” e hiereion designa sia la vittima del sacrificio che l’animale da macello, ma diversamente lo sphagion è un animale sgozzato e fatto a pezzi, ma di cui non si consumano le carni. Inoltre per gli “elleni” (e tutti i greci dall’età omerica a quella ellenistica”) il macellaio che accoltella e squarta le vittime sacrificali ha lo stesso nome del sacrificatore che presiede al rito religioso, nonché del cuoco incaricato di cuocere le carni delle vittime dopo il sacrificio: ossia il magheiros che ha la sua radice etimologica condivisa il termine magia.

Ma chi sono questi uomini che partecipano e portano a compimento quell’orrendo sacrificio? Dice Eunapio dei parabolani: “ma non erano neppure uomini, se non in apparenza perché facevano la vita da porci e compivano apertamente e assecondavano crimini innumerevoli e innominabili” (Vita di Eustazio VI, 11, 35). Sono i partigiani del vescovo di Alessandria il quale ben sa, perché in gioventù faceva parte di questi setta di monaci, che basta lasciarli sfogare. E’ la vittoria completa di Cirillo: un’intimidazione diretta verso Oreste non soltanto come vendetta nei confronti della morte di Ammonio, ma essendo Ipazia colpevole di professare le arti magiche atte ad abbindolare e stregare l’intero popolo, la massa dei credenti avrebbe messa in atto una esecuzione legittima anzi un sacrifico rituale.

Dopo il massacro della filosofa il risentimento e l’indignazione di Oreste non riuscì a ottenere che l’ira dell’imperatore (minorenne) si abbattesse “violentissima” su gli assassini se Edesio non fosse stato corrotto e Pucheria non fosse così devota a Cirillo.

Ma storia, se ha assolto il vescovo sul piano giudiziario, non lo ha fatto su quello politico ed ha elevato Ipazia a una delle donne più eminenti di tutti i tempi.


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– Zosimo, Historia nova ed. F. Paschoud, Histoire nouvelle. Paris, Les Belles Lettres, 1986


Note

[1] L’8 marzo è solo un’ipotesi attraente e suggestiva, enunciata dopo la creazione, in quel giorno, della «festa della donna», ma per ragioni varie e diverse dal martirio di Ipazia. Comunque quell’8 marzo del 415 era un mercoledì.

[2] Socrates Scolasticus, Kirchengeschichte, G. C. Hansen, Academie Verlag Berlin, 1995. La Storia ecclesiastica fu pubblicata per la prima volta in greco da Robert Estienne, Codex Regius 1443 (Parigi, 1544). L’edizione critica più recente del testo è stata curata e pubblicata nella serie Griechischen Christlichen Stiftsteller.

[3] Sinesio, Opere. Epistole, operette, inni, a cura di A. Garzya, Utet, Torino 1989

[4] Johannes Thurn (ed.) 2000, Ioannis Malalae Chronographia, Corpus fontium historiae Byzantinae 35 (Berlin, New York: Walter de Gruyter)  (edizione critica)

[5] Ada Adler (a cura di), Suidae Lexicon, I-V. Lipsiae: in aedibus B. G. Teubneri, 1928-1938.

[6] Suda, IV 644, 3; il lessico del secolo X che riprende la notizia da Esichio di Mileto del VI secolo e da la Storia ecclesiastica di Filostorgio, pervenuta nella Epitome di Fozio.

[7] Philostorgius, Church History, trad., intr. e note di Ph.R. Amidon, Leiden-Boston, Brill, 2007]. Historia Ecclesiastica, Patrologia Graeca, vol. LXV. La Storia ecclesiastica, pervenuta nella Epitome di Fozio.

[8] Damascio, Vita Isidori, 102, p.77. 1-3.

[9] Ammiano Marcellino. Res gestae, XXII 16, 16-18.

[10] Non tutti possono essere filosofi, ma tutti possono essere filomati. Sidonio Apollinare (430-486) epist. 2, 8 L’elogio funebre di Filomazia.

[11] Suda, IV 644, 3-8 che cita Esichio da Mileto.

[12] Suida Lexicon, Adler, Lipsia, Teubner 1967-71 IV pag. 644, 32 e 645 1-12.

[13] Socrate Scolastico, Storia Ecclesiastica VII, 15.

[14] Diofanto di Alessandria, Aritmeticorum libri 6., Tolosae, 1670; Arithmetica di Diofanto, tradotta in latino da Claude Gaspard Bachet de Méziriac nel 1621; Diophante, Les Arithmétiques, tome III, texte établi et traduit par R. Rashed, Paris, Les Belles Lettres, 1984. Una traduzione araba in sette libri di cui possediamo gli ultimi quattro libri e gli altri tre sono in un riassunto di un commentatore. Diofanto viene ricordato per le equazioni indeterminate (le diofantine con soluzioni razionali e non intere) ed il simbolismo matematico.

[15] Suidas, il lessico del X secolo riporta le uniche notizie biografiche sul padre di Ipazia Suda, II, 702, 10-16

[16] Non è detto il tipo di controllo: una semplice revisione del commento paterno, di integrazioni al testo o editare l’intero testo di Tolomeo.

[17] Theone di Alessandria, Commentaria in Ptolemaei syntaxin mathematicam ed. A. Rome, voI. III, p. 807.

[18] Pappus Alexandrinus, Mathematicae collectiones, Bononiae, ex typographia Duccijs, 1660

[19] Gemma Beretta, Ipazia d’Alessandria, Editori Riuniti, Roma, 1993-2014.

[20] Giovanni di Nikiu = Chronique de Jean, éveque de Nikiou, texte éthiopien publié et traduit, a C. di H. Zotenberg, Paris 1883; The Chronicle o/John, Bishop o/ Nikiou, trad. ingl. e note di R.H. Charles, London-Oxford 1916 (fotorist. Evolution Publishing, 2007

[21] Sinesio, Racconti egiziani o della provvidenza, Opere. Epistole, operette, inni, a cura di A. Garzya, Utet, Torino 1989.

[22] Damascio, Vita Isidori, Hildesheim, Olms 1967. 77-8-10

[23] Teone di Alessandria, Le Petit commentaire de Théon d’Alexandrie aux Tables faciles de Ptolomée, tr. da A. Tehon, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana 1978.

[24]Bidez, Eznleitung zur Kirchengeschichte, pp. CIX-CX; rimanda a Philostorgio X 9; XI 7; XII 8

[25] Sinesio, Epistola 136

[26] Sinesio, De dono, pag.  547

[27] La Pastor Aeternus è una Costituzione dogmatica sulla fede cattolica del Concilio Ecumenico del 18 luglio 1870 (Pio IX)/Capo IV: “Perciò Noi, mantenendoci fedeli alla tradizione ricevuta dai primordi della fede cristiana, per la gloria di Dio nostro Salvatore, per l’esaltazione della religione Cattolica e per la salvezza dei popoli cristiani, con l’approvazione del sacro Concilio proclamiamo e definiamo dogma rivelato da Dio che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, e in forza del suo supremo potere Apostolico definisce una dottrina circa la fede e i costumi, vincola tutta la Chiesa, per la divina assistenza a lui promessa nella persona del beato Pietro, gode di quell’infallibilità con cui il divino Redentore volle fosse corredata la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede e ai costumi: pertanto tali definizioni del Romano Pontefice sono immutabili per se stesse, e non per il consenso della Chiesa. Se qualcuno quindi avrà la presunzione di opporsi a questa Nostra definizione, Dio non voglia!: sia anatema.”

[28] Riprende la Non expedit di Pio IX, rendendo impossibile la partecipazione dei cattolici italiani alle votazioni e ai suffragi, cioè alla vita politica dello Stato. E’ l’arcinemico di Giordano Bruno: quando la capitale era messa a ferro e fuoco per la statua del filosofo in Campo dei Fiori, chiamò a raccolta i fedeli dicendo che “non possedeva un sapere scientifico rilevante”.

[29] I contemporanei sono: il cristiano Socrate Scolastico (380440 ca), il filosofo pagano Eunapio (347- dopo il 414 ca), l’ariano erudito Filostorgio (368 – 439 ca), il vescovo e neoplatonico Sinesio di Cirene (370 ca – 413), il teologo Teodoreto (393457 circa) … il filosofo Damascio (462 – 538 d.C.), il vescovo copto Giovanni di Nikiu (inizio VII sec.), la Suda o Suida, un lessicoenciclopedia del X secolo greco bizantino

[30] Chierici che si dedicavano inizialmente alla cura dei malati, alla sepoltura dei morti e a opere di misericordia. La loro scelta e il loro controllo erano messi in pratica dal vescovo che ben li conosceva per via del fatto che, prima di assumere la cattedra alessandrina, Cirillo aveva abitato a lungo tra loro nel deserto e poi li aveva assimilati nel corpo dei parabalani (inizialmente i membri di una confraternita nella Chiesa delle origini, poi usata dal vescovo di Alessandria). Erano in 5/600 e il Codex Theodosianus li aveva messi sotto la supervisione del Praefectus Augustale, pur essendo agitatori politici dalla parte del “papas”, che riunivano con loro il popolo cristiano. Non avevano né ordini né voti, ma erano elencati tra il clero e godevano di privilegi e delle immunità degli ecclesiastici e costituivano anche la guardia del corpo del vescovo.

[31] Socrate Scolastico, 7.13.14 pp. 357-360 Hansen – il dissidio fra Cirillo e Oreste

[32] Giovanni di Nikiu = Chronique de Jean, éveque de Nikiou, texte éthiopien publié et traduit, a C. di H. Zotenberg, Paris 1883; The Chronicle of John, Bishop o/ Nikiou, trad. ingl. e note di R.H. Charles, London-Oxford 1916 (fotorist. Evolution Publishing, 2007).

[33] Ad es. Cod. Theod. IX 16,1-2 (320); XVI 10,1 (320/321); IX 16,3 (321).

[34] – Giovanni di Nikiu = Chronique de Jean, éveque de Nikiou, texte éthiopien publié et traduit, a C. di H. Zotenberg, Paris 1883; The Chronicle o/John, Bishop o/ Nikiou, trad. ingl. e note di R.H. Charles, London-Oxford 1916 (fotorist. Evolution Publishing, 2007).

[35] Nonno di Panopoli, Dionisiache, a cura di Gigli Piccardi D., BUR, Rizzoli, Milano 2004, pp. 117 e sgg.

[36] Si va dalla lex Cornelia de sicàriis et venèficis promulgata nell’81 a.C. dal dittatore Silla, per cui i colpevoli potevano essere impunemente aggrediti e messi a morte da qualsiasi cittadino, al Codex Theodosianus del 437, che è una fonte selettiva che riunisce tutte le leggi anche costantiniane che prevedono la pena di morte per i colpevoli di arti magiche ed eresia.


Articolo pubblicato per la prima volta sulla rivista Anthropos & Iatria n.2, Luglio 2015, riprodotto per gentile concessione dell’autore che ne detiene i diritti. Riproduzione vietata con qualsiasi mezzo.

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