Lo specchio oscuro. L’ambiguo confine dell’umano

di Luisella Battaglia

L’animale! Oscuro mistero! Mondo immenso di sogni e muti dolori … Ma segni troppo visibili esprimono questi dolori, nonostante la mancanza della parola. Tutta la natura protesta contro la barbarie dell’uomo che disconosce, avvilisce, tortura i suoi fratelli inferiori e lo accusa dinanzi a Colui che li creò tutti

Jules Michelet

 “Non siamo mica bestie!”

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Gustave Dorè, dalle Favole di La Fontaine, 1867

La storia del pensiero filosofico occidentale è segretamente percorsa da un interrogativo inespresso, sotterraneo, misterioso e perciò tanto più inquietante. E’ possibile stabilire un confine tra l’uomo e l’animale e, se sì, dove passa questo confine, quali territori attraversa? Come definire la categoria ‘animalità’? Di rado essa è interrogata in maniera esplicita pur essendo fonte di perplessità più abissali della domanda relativa all’umanità stessa. Come ci rapportiamo alla comunità formata da tutte le specie viventi ‘altre’ dalla specie umana, a tutte le maniere d’essere al mondo diverse dall’umana?

Manifestamente, uomo e animale hanno in comune il nascere, il morire, il vivere, la fame, la sete, la paura, il piacere, il dolore. Ma l’animale – si afferma – è confinato al biologico, l’uomo vive nel simbolico. Per il filosofo le opposizioni più significative sembrano giocarsi tra la materia e lo spirito, il corpo e l’anima, la natura e la ragione, l’istinto e l’intelligenza, la necessità e la libertà, il grido e la parola. Tali opposizioni – vere e proprie pietre di confine – sono oggi in via di superamento, grazie anche agli apporti dell’etologia cognitiva e della neuro fisiologia comparata, e attendono comunque di essere problematizzate e rivisitate. Si potrebbe pensare che esista una stretta solidarietà, nutrita sia di antagonismo che di analogia, tra le concezioni rispettive dell’umanità e dell’animalità, giacchè, a ben vedere, le rappresentazioni del non umano nella cultura e le sue variazioni storiche non sono indifferenti alle rappresentazioni dell’umano.

La preoccupazione costante dell’uomo civilizzato è stata e resta quella di stabilire fermamente la distanza, se non la rottura, tra il suo essere proprio e quello dell’animale attraverso l’affermazione della incommensurabilità delle due nature, la differenza assoluta e irriducibile e soprattutto l’enorme superiorità. Più forte di tutti i rapporti reali ed effettivi, della lotta, della caccia, della domesticazione, dell’allevamento, della compagnia, al di là della complessità dei significati magici e religiosi sempre presenti, prevale la certezza di un uomo che si proclama re, signore e padrone del mondo vivente. Si abbandonano volentieri il corpo, gli istinti, la condizione sensibile e carnale all’ordine dell’animalità mentre vengono rivendicati come specificamente umani il pensiero e la ragione, l’intelligenza intuitiva e creativa, il linguaggio simbolico, il possesso di un’anima immortale, il senso religioso e il sentimento del sacro, il senso morale e il sentimento del dovere, una libertà cosciente e infinita, le regole culturali, la storicità etc.

L’uomo si definirà ‘animale’ solo aggiungendo una specificazione, una qualifica che denota tutta la differenza: razionale. In quanto specie homo è sapiens sapiens, faber, loquens, ludens etc. La certezza della separazione si è consolidata nei dualismi, sia platonici che cartesiani, di spirito e corpo che hanno segnato il percorso dalla differenza radicale alla superiorità, dalla superiorità al dominio, dal dominio allo sfruttamento. Alle origini del nostro ostentato orgoglio di specie v’è probabilmente la preoccupazione di rendere intangibile la specificità umana, come se essa fosse minacciata dal riconoscimento di una somiglianza inquietante, di una vicinanza contaminante, come se ci fosse bisogno di difendersi dal ricordo di una ‘animalità’ a stento abbandonata, quasi la paura di una ricaduta. In Nascondere l’umanità Martha Nussbaum ha scritto pagine assai penetranti a questo riguardo, riferendosi al ‘disgusto’ per i nostri corpi animali:

Poiché il disgusto incorpora una tendenza a rifuggire la contaminazione che si associa al desiderio umano di non animalità, esso è frequentemente collegato a forme varie e infide della pratica sociale, nelle quali il disagio che le persone avvertono per il fatto di avere un corpo animale viene proiettato all’esterno su persone e gruppi vulnerabili. Tali reazioni sono irrazionali, in senso normativo, sia perché contengono l’aspirazione di essere una creatura che non si è, sia perché, nel perseguire tale aspirazione, si prendono a bersaglio altri, infliggendo loro danni evidenti.[1]

Il non accettare la nostra natura animale ha come conseguenza una mancata, o imperfetta, conoscenza di noi stessi, che ci porta a occultare gli aspetti che riteniamo indegni e a liberarcene, proiettandoli su altri che diventano oggetto del nostro disprezzo o del nostro biasimo. In tal modo, manteniamo un’immagine positiva e idealizzata del nostro essere a spese di altri soggetti che sono caricati della negatività. Di particolare rilievo anche le parole di Alain, ne Les dieux, secondo cui non è permesso supporre lo spirito nelle bestie giacché ogni ordine sarebbe presto minacciato se si lasciasse credere che il vitellino ama sua madre o che teme la morte, o solo che vede l’uomo: l’occhio di un animale non è un occhio…

La scelta dell’affermazione dalla rottura assoluta o, viceversa, di una continuità relativa tra l’uomo e l’animale non dipende solo da opzioni filosofiche e teoriche o da interessi legati a rapporti economici reali (caccia, allevamento etc.). Altrettanto importanti – ai fini di un’etica del riconoscimento – sono infatti le ‘immagini’ positive o negative dell’animalità, con tutto il valore simbolico ad esse connesso. L’immaginario precede di molto le descrizioni reali: basta riferirsi ai bestiari medievali per verificare con quale facilità l’animale fantastico prevalga su quello reale.

Tra le immagini ‘positive’ figurano quelle legate all’innocenza di un essere che si colloca al di là della distinzione tra bene e male: è l’animale gioioso e amichevole del paradiso terrestre, dallo sguardo limpido e pacifico o quello che sale sull’arca accanto ai giusti, o, ancora, il leone della profezia che giace con l’agnello. Nel tempo primordiale, evocato nostalgicamente dai miti dell’età dell’oro, le ‘bestie parlavano’ e gli uomini comprendevano il loro linguaggio. Platone fa riferimento a tale narrazione nel dialogo Il Politico in cui si afferma che gli uomini di allora erano infinitamente più felici di quelli attuali in quanto avevano la facoltà di chiedere a ogni essere vivente se, possedendo una sua capacità specifica, percepisse qualcosa di diverso e di superiore, così da accrescere la propria intelligenza e conoscenza del mondo.

Su questa scia Plutarco mette in scena una stravagante conversazione tra Ulisse e Grillo, un maiale dell’animalesca corte di Circe, un tempo uomo e quindi in grado di comparare le due condizioni sulla base della sua personale esperienza. Ebbene, Grillo, oltre a confutare l’orgoglio antropocentrico di Odisseo con grande abilità dialettica e dovizia di riferimenti dotti, tesse l’elogio delle qualità naturali degli animali – l’audacia, la fierezza, la morigeratezza – al punto da rifiutare di riassumere la forma umana.

Una cosmologia per gli animali?

Se gli animali aprono alla carnalità della vita, essi introducono anche al divino. E’ la tesi sostenuta da James Hillman in Oltre l’umanismo:

Vorrei azzardare l’idea che una cosmologia dotata di anima dedichi una particolare attenzione agli animali. Vorrei proporre che una nuova cosmologia accettabile debba ricevere l’approvazione da parte del regno animale. E gli animali, di sicuro, non voterebbero per la cosmologia cristiana o cartesiana, newtoniana, kantiana o einsteiniana. […] La cosmologia è stata un’impresa così iperborea e inodore, di anni luce e gas galattico, da essere certo lontana dai cuccioli delle nostre case, dai piccioni e dagli scarafaggi.[2]

A ispirare questa proposta sono i concetti di ‘natura viva’ di Whitehead, di ‘fede animale’ di Santayana, di ‘anima animale della terra’ di Fechner, ma soprattutto la radicalità scandalosa delle idee di Giordano Bruno. E tuttavia, se ci chiedessimo perché sia così scandaloso dare importanza agli animali, potremmo scoprire che si tratta di un’idea abbastanza ortodossa. Basti pensare – già Voltaire lo aveva suggerito – che all’origine della tradizione giudaico-cristiana v’è la richiesta di Dio a Noè di costruire un’arca per salvare la sua famiglia e gli animali.

Secondo le favole, le leggende, i miti e i rituali di tutto il mondo – ci ricorda Hillman – gli animali rivelano agli uomini i segreti del cosmo: sono loro che ci istruiscono sulla cosmologia, mediano cioè tra gli dei e gli uomini, possiedono una conoscenza divina. Emblema dunque del divino a causa della stessa immutabilità e stabilità della creazione, espressa dalle loro forme sempre identiche, eterne nella loro fissità. Il nostro universo antropocentrico – sostenuto, attraverso i secoli, dalla filosofia stoica attraverso il dogma cristiano – è stato garantito dalla teoria meccanicistica cartesiana, che assegnava solo agli uomini la coscienza, la memoria, la soggettività. Gli animali sono non-senzienti, irrazionali, inferiori: la condanna della loro ‘coscienza’ – la loro muta saggezza, la loro certezza, il loro ‘andar dritti allo scopo’ – ci ha assicurato la nostra superiorità di specie. Ma – si chiede ancora Hillman – se fossero gli animali a definire la coscienza, che cosa succederebbe?

Gli animali non hanno bisogno della mediazione della ragione, perché percepiscono in modo immediato e così conoscono. Nel loro ambiente non fanno errori di percezione, perché non hanno bisogno di una teoria delle illusioni, della memoria e della simbolizzazione. Potremmo chiamarla ‘conoscenza assoluta’? Così come leggono il loro mondo scrupolosamente, allo stesso modo essi sono letti dal loro mondo e il loro linguaggio parla continuamente e con certezza nelle loro manifestazioni di sé, e mostra la loro interiorità che si manifesta.[3]

Questi temi mitici sono stati elaborati variamente nella letteratura. Basti pensare a Rilke che, nelle Elegie duinesi, evoca l’animale libero che ‘va nell’eternità’, aperto e senza reticenze, o a Eluard, per cui l’animale è ‘poetico’, in quanto apre a una maniera nuova di vivere, conduce all’elementare (aria, acqua), al vegetale, al cosmico e non v’è lontananza, grazie all’uccello, tra la nuvola e l’uomo.

Anche Michelet, che evidenzia il ‘ruolo magistrale’ svolto dagli animali nelle civiltà umane, ne esalta la capacità di aprire dimensioni dell’esistenza misteriose e inaccessibili all’uomo, di rivelare l’alibi, un ‘altrove’ segreto.

Ad apprezzare esseri sì estranei alle condizioni della nostra vita prosaica, bisogna smarrire per un istante la terra, formarsi un senso speciale e allora ci si avvede di qualche cosa di inferiore e di superiore che sta al di qua e al di là, i lembi della vita animale alle frontiere della vita degli angeli.[4]

Sulla scia di Nietzsche – di quella potente visione delle Considerazioni inattuali per cui l’animale “vive sulla soglia dell’attimo” – Kundera lo vedrà inserito nel tempo ciclico, memore dell’idillio dell’Eden, in contrasto con la storicità cui l’uomo è condannato.

Noi che siamo stati allevati nella mitologia dell’Antico Testamento potremmo dire che l’idillio è un’immagine rimasta in noi come ricordo del Paradiso: la vita nel Paradiso non somigliava a una corsa in linea retta che ci conduce verso l’ignoto, non era un’avventura. […] Finché l’uomo viveva in campagna in mezzo alla natura, circondato da animali domestici, nell’abbraccio delle stagioni e del loro avvicendarsi, rimaneva ancora in lui almeno un riflesso di quell’idillio paradisiaco […] In Paradiso l’uomo non era ancora uomo. O, più precisamente, l’uomo non era stato ancora scagliato nella traiettoria dell’uomo. Noi, è già molto tempo che vi siamo scagliati e voliamo nel vuoto del tempo che si compie in linea retta. Ma esiste sempre in noi una cordicella sottile che ci lega al lontano e nebuloso Paradiso […] La nostalgia del Paradiso è il desiderio dell’uomo di non essere uomo.[5]

La ferinità ripudiata

Ben più rilevanti tuttavia, per la nostra eredità culturale, sono le immagini ‘negative’ in cui l’animale rappresenta l’oscurità, il disordine, le forze malefiche e diaboliche. Da sempre il rapporto dell’uomo col mondo non umano è stato mediato da stereotipi o rappresentazioni irrealistiche, distorte, largamente immaginarie, che rispondono ben più ai nostri bisogni che non alla realtà del mondo animale. Considerare, ad es., l’animale come un meccanismo privo di sensibilità (lo stereotipo dell’animale-macchina) libera da ogni scrupolo nei confronti delle sue sofferenze e si rivela di particolare utilità in quelle imprese – dagli allevamenti intensivi ai laboratori di ricerca – in cui la logica dell’efficienza e della massimizzazione dei profitti richiede che gli animali siano visti come oggetti da manipolare, materiale da trasformare in conformità dei disegni dei tecnici. Del pari, la rappresentazione di alcuni animali come demoni (incarnazione del male, del caos, dell’irrazionalità) è all’origine delle feste sanguinarie e serve a legittimare comportamenti crudeli, se non veri e propri programmi di sterminio.

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Gustave Dorè, dalle Favole di La Fontaine, 1867

Certo, se tradizioni filosofiche e religiose secolari hanno contribuito a consolidare l’immagine negativa degli animali, e quindi a incoraggiare una condotta umana ad essa conforme, mi sembra tuttavia principalmente all’opera, in tali comportamenti, il meccanismo ben noto della proiettività. Esso consiste nell’attribuire ad altri – persone o animali – caratteristiche, atteggiamenti, intenzioni che nel profondo ci appartengono ma la cui presenza in noi viene ignorata o accuratamente rimossa.

Quali i motivi? Vogliamo conservare un’immagine assolutamente positiva di noi stessi, allontanando le componenti inaccettabili della nostra personalità e scaricando sull’altro (i ‘diversi’, appunto) tutto ciò che di negativo ci appartiene. E chi è più diverso dell’animale? Entra in tal modo in gioco una componente di aggressività che fa sì che nell’altro, l’animale, non si ritrovi solo il volto negativo (il lato ‘bestiale’) ma il fantasma di una negatività più inquietante e minacciosa.

La bestialità è l’animalità qualificata in senso peggiorativo e sfavorevole, in riferimento a norme morali umane, ma è anche, più profondamente, la condizione in cui ricade l’individuo quando perde la sua ‘umanità’, nel senso normativo del termine, è lo scacco per cui l’uomo non riesce a conformarsi al suo modello specifico. L’animale diviene in tal modo una sorta di ‘specchio oscuro’ dell’umano, un essere di cui si avverte l’inquietante, e insieme familiare, estraneità, la memoria angosciosa di una ferinità perennemente in agguato.

Tra le componenti della ‘bestialità’ menzionate da Platone ritroviamo la materialità, l’inerzia, l’impulsività, la lussuria, la voracità, l’aggressività brutale. Negative anche, in certe mitologie, le metamorfosi del dio o dell’eroe in animale che è semplicemente la forma assunta dal dio in seguito a un inganno o per sfruttare un’occasionale vantaggio o per nutrirsi segretamente del frutto proibito (Zeus che si trasforma in cigno per amare Leda o in toro per rapire Europa). Nel connubio con Semele, Zeus esibisce la sua potenza amatoria come toro e leone, pantera e serpente, dopo aver spiato la fanciulla al bagno in aspetto di aquila. Un vero e proprio trasformismo a sfondo erotico in cui la forma ‘bestiale’ diviene strumento di una passione ‘umana’, esaurita la quale il re degli dei recupera la sua identità e s’invola sull’Olimpo.

Le stesse credenze religiose che fanno spazio alla metempsicosi, d’altra parte, considerano la vita vissuta sotto un aspetto animale come una punizione, una sorta di purgatorio dell’uomo colpevole.

Foucault nota nella Storia della follia nell’età classica che l’animale ha rappresentato per lungo tempo, per la cultura occidentale, il pericolo assoluto di una follia che abolisce la natura dell’uomo. Esso appartiene a una ‘contro-natura’, a una negatività minacciosa e, soprattutto nel Medio Evo, alle potenze sotterranee del male. Alla fine del XVIII sec. la follia modella il suo viso con la maschera della bestia e i manicomi assumono l’aspetto di gabbie: la follia potrà definirsi come la condizione dell’uomo in rapporto immediato colla sua animalità.

Lautréamont, commentato da Bachelard, ravvisa nella fauna l’inferno dello psichismo. Tutti i nostri vizi sono concretizzati nel regno animale; in particolare viene messo l’accento sulla ferocia. Emerge dai numerosi combattimenti, più o meno mostruosi, descritti nei Canti di Maldoror che l’essenza della vita animale è l’energia dell’aggressione.

Se si ricercano le ragioni di queste immagini negative, si può fare riferimento al pericolo reale rappresentato da parecchie specie nei tempi preistorici per un’umanità ancora indifesa o debolmente armata o ad atavismi, come, ad es., la vecchia paura del lupo nelle campagne. Ma le motivazioni sono più profonde. L’uomo – ha rilevato la psicologa Mary Midgley – è spesso ‘bestiale’ nella sua condotta verso gli animali ma non ha mai voluto ammettere la propria ferocia e ha cercato di sviare l’attenzione da essa, rendendo feroci gli animali. I quali, dunque, pagherebbero in quanto specchio del male dell’uomo. All’animale viene infatti attribuita quella stessa aggressività verso di noi che neghiamo in noi, nel nostro rapporto con lui – il che serve, tra l’altro come alibi per un comportamento ostile nei suoi confronti.

Sappiamo che substrati emozionali inconsci di tipo simile sono presenti in molte forme di ostilità, di odio collettivo, nella persecuzione dei ‘diversi’, dai neri agli ebrei. In effetti, gli stereotipi che dovrebbero legittimare l’indifferenza verso la sofferenza degli animali o giustificare l’ordinaria spietatezza nei loro riguardi sono strettamente correlati ai modi del pensiero razzista e sessista, come testimonia la lunga storia della discriminazione. Uno dei più importanti meccanismi di distanziamento, molto radicato nella nostra cultura, è la cosiddetta ‘rappresentazione falsata’: il descrivere gli animali come esseri privi di soggettività e di passioni rafforza un sentimento di estraneità emotiva nei loro riguardi e ne sancisce l’assoluta esclusione dal nostro mondo morale. In realtà, gli animali sono esseri abbastanza ‘simili’ per condividere con noi certe esperienze fondamentali e abbastanza ‘diversi’ per rappresentare per noi una fonte continua di meraviglia e di stupore. Sennonché è’ piuttosto difficile intendere il concetto di diversità in senso pieno e positivo: la lunga storia delle donne sta a dimostrarlo…

Al confine tra due sguardi.

La sconfinata pietà per tutti gli esseri viventi è la più salda garanzia del buon comportamento morale e non ha bisogno di alcuna casistica. Chi ne è compreso non offenderà certo nessuno, non danneggerà nessuno, non farà del male a nessuno, avrà invece indulgenza con tutti, perdonerà, aiuterà, fin dove può, e tutte le sue azioni recheranno l’impronta della giustizia e della filantropia.

Con tali parole Schopenhauer prende risolutamente le distanze dalla ‘tesi della crudeltà’, secondo cui “bisogna aver pietà per gli animali soltanto per esercizio, essi sono, per così dire, il fantasma patologico per l’esercizio della pietà verso gli uomini”.[6] Se alle “naturali pretese del mondo animale” si oppone una filosofia che – da Cartesio a Kant – si è sforzata di scavare un abisso incolmabile tra i viventi, per presentarli diversi, a dispetto di ogni evidenza, Schopenhauer, da parte sua, si richiama a quella che ritiene la preghiera più bella, frutto della sapienza indiana: ”Possano tutti gli esseri viventi restare liberi dal dolore.”

“Pietà per gli animali” è invocata anche dal filosofo Piero Martinetti, per il quale la sofferenza degli innocenti rivela l’aspetto tragico della realtà .

Anch’essi godono e soffrono ed esprimono coi mezzi più suggestivi i sentimenti che essi provano: il dolore delle bestie perseguitate a morte, delle madri ferite che supplicano per i loro figli, ha qualche cosa di umano.[7]

Nella prospettiva filosofica di Martinetti – come già di Schopenhauer – l’animale è dotato sia di intelletto che di coscienza: non solo il suo agire, ma gli stessi atteggiamenti, i gesti, la fisionomia tradiscono l’espressione di una vita interiore, forse estremamente lontana dalla nostra, che tuttavia non può essere ridotta ad un semplice meccanismo fisiologico. La rivendicazione della coscienza animale non vuole dunque essere una forma di antropomorfizzazione giacché Martinetti sottolinea a più riprese il carattere “ignoto e misterioso” della loro anima. Le sofferenze sia fisiche che morali degli ‘altri’ – e chi più ‘altro’ dell’animale? – rischiano di sottrarsi al nostro sguardo e alla nostra attenzione benché siano evidenti. La scelta morale appare primariamente come una questione di ‘visione’: la disattenzione fisica risulta del tutto simile alla disattenzione morale. Scoprire ciò che è causa della sofferenza di un essere vivente e come rispondere alle sue esigenze esige, preliminarmente, un esercizio di attenzione nel senso profondo espresso da Simone Weil: “essere attento è essere aperto all’illuminazione”. L’attenzione, nel rivelarmi l’altro, mi rivela altresì l’esistenza di una asimmetria di forza e di potere e quindi mi pone dinanzi a responsabilità e doveri che prima non vedevo ma a cui ora mi sento chiamato a rispondere, senza lo schema spersonalizzato del ruolo o dell’istituzione.

In tal modo emerge un elemento caratteristico dell’etica della cura: l’asimmetricità, ovvero il mio essere responsabile per l’altro, per il suo bene e benessere, senza attendermi nulla in cambio. L’altro mi interpella e mi costringe a una responsabilità irrecusabile e asimmetrica – quella eticamente più alta – giacché non esiste né può esistere reciprocità. Assumendo la non reciprocità come un filo conduttore della riflessione etica, potremmo – andando al di là dell’ambito umano – riconoscere la prossimità dello sguardo muto che fa appello direttamente alla nostra coscienza morale (poco conta a quale specie appartenga), in un incontro con l’altro che verifichi la nostra giustizia verso di lui senza alcuna pretesa di ricompensa. Tuttavia l’animale resta per noi – lo rileva Jacques Derrida – “una cosa vista e non vedente”. Si tratta, a suo avviso, di un immenso disconoscimento la cui logica attraversa tutta la storia dell’umanità. Quanti filosofi hanno davvero incontrato lo sguardo di un animale che si è posato su di loro, che dunque poteva rivolgersi a loro?

L’esperienza di un animale che guarda non è stata mai presa in considerazione, ad esempio, nell’architettura filosofica di Descartes, Kant, Heidegger, Lacan e Levinas:

I loro discorsi – continua Derrida – sono forti e profondi, ma tutto avviene come se non fossero mai stati guardati, loro, […] da un animale rivolto verso di loro.[8]

Non solo dunque tale esperienza non è assunta teoricamente ma viene negata e misconosciuta.

Eppure “gli occhi dell’animale – ha osservato Martin Buber – hanno la ricchezza di un vasto linguaggio”[9]. Ancora Derrida si chiede:

Che cosa mi fa vedere questo sguardo senza fondo? […] Mi fa vedere il limite abissale dell’umano: l’inumano o l’anumano, le fini dell’uomo, cioè il passaggio delle frontiere.[10]

Non si tratta, a ben vedere, di un disconoscimento tra i tanti giacché istituisce in certo modo la specificità dell’uomo, il solo essere che guarda. Come può dunque essere proponibile una morale fondata sul riconoscimento fraterno dell’altro al di là del confine della specie? Se l’etica universale della cura sembra ancor oggi una visione utopica, almeno nel senso radicale in cui Aldo Capitini l’ha concepita,[11] essa intende comunque richiamarci all’esigenza ineludibile di definire un orizzonte normativo alla luce del quale elaborare un severo codice di doveri verso il mondo animale. Un’esigenza cui oggi, dinanzi alle dimensioni senza precedenti dello sfruttamento e della crudeltà organizzata, appare sempre più difficile sottrarsi e che sembra poter contare su un consenso – da presupporre ampio – sulla necessità di ridurre al minimo le sofferenze e i danni inflitti agli animali. Su questa linea può collocarsi la proposta avanzata di recente da Lombardi Vallauri di una sorta di ‘decalogo’, rivolto programmaticamente ai non vegetariani e ai non animalisti, per invitarli ad adottare ‘stili di vita’ conformi a un imperativo di esplicita ascendenza kantiana: “agisci in modo da considerare l’animale (anche) come fine e non (solo) come mezzo.”[12] Si tratta, ad esempio, di resistere alla persuasione mediatica e alla pubblicità commerciale in generale che propagandano stili di vita e di consumo oggettivamente nemici del benessere animale; di esercitare il consumo critico, selezionando i prodotti alimentari ottenuti con metodi il meno possibile lesivi del benessere degli animali sfruttati o sacrificati; di evitare o, quanto meno, ridurre l’uso di farmaci, cosmetici o comunque oggetti o sostanze testati su animali; di boicottare i prodotti animali di ogni genere ottenuti con metodi brutali o crudeli. Una proposta di chiara ispirazione gandhiana – non si dimentichi che il boicottaggio è una delle armi più potenti nella società dei consumi – che, nel suo ribadire il valore della nonviolenza come opzione spirituale fondamentale e come tecnica politica efficace, mostra come essa sia declinabile in termini di etica della responsabilità. Ne deriva una diversa impostazione strutturale e morale del vivere dell’uomo che avrebbe conseguenze benefiche indirette anche per gli animali.

 L’alterità animale tra antropomorfizzazione e reificazione.

Ritorniamo al punto essenziale: l’animalità è ben di rado considerata per se stessa. Quasi sempre ciò che ne viene detto, visto, percepito, entra in una rete simbolica, assume, per così dire, un valore ‘paradigmatico’per l’umano, in senso positivo o, più spesso, negativo. Come rapportarci, dunque, colla ‘diversità’ animale? E’ possibile riconoscerla e rispettarla in quanto tale?

Michel de Montaigne ironizza lungamente sulla ingenua sicurezza dell’uomo che presume di sapere ciò che passa nella testa degli animali, specie quando pretende di attribuire loro o negare quelle facoltà che più gli sembrano adatte:

In che modo conosce, con la sua intelligenza, i moti interiori e segreti degli animali? Grazie a quale confronto, tra noi e loro, arriva a concludere su quella bestialità che attribuisce loro? Quando gioco con la mia gatta, chi sa se è lei a passare il tempo con me più di quanto non lo faccia io con lei?[13]

Il diverso va difeso non rendendolo simile a noi ma assumendolo precisamente nella sua diversità. E’ proprio questa diversità – che ci offre straordinarie opportunità di incontro, di crescita, di creazione, di arricchimento – che va rivendicata. Per lui e per noi, che ne abbiamo bisogno per essere quel che siamo. Il nostro io plurale e scisso, comunitario e dialogico, si isterilirebbe: se mancassero altre ‘voci’da ascoltare, con cui confrontarsi, perderebbe la sua specificità.

Nihil humani a me alienum esse puto”. Tutto quel che è umano mi appartiene, dice in me la ragione, intendendo: ogni essere umano è l’indicazione di una strada da percorrere, di una struttura da esplorare, di un personaggio da conoscere. E il ‘non umano’, quello che abbiamo sbrigativamente qualificato con tale termine negativo, respingendolo da noi, non ci appartiene anch’esso? Non ha proprio nulla che possa interessarci? O insegnarci? Si ricordino le suggestioni dell’utopia platonica.

Proviamo, ad esempio, a guardare all’animale come referente educativo, come fonte di messaggi per imparare a conoscere la diversità, come stimolo alla comunicazione, come evocatore di esperienze di studio e di gioco, come centro di interesse per percorsi transdisciplinari. Si pensi allo studio filosofico e storico del rapporto uomo-animale, alla rappresentazione artistica, alla riflessione pedagogica, all’analisi psicologica, all’indagine antropologica, alla ricerca etologica: altrettante occasioni di formazione e di crescita in ambito didattico. La diversità – lo sappiamo – crea tensione, mette a disagio, inquieta. Siamo animali territoriali: quel che non quadra, cui non siamo abituati, ci fa reagire aggressivamente, provoca scandalo. La soluzione più ‘naturale’ del problema rappresentato dal diverso consiste nella sua eliminazione: fisica (distruzione) o mentale (omologazione).

La terza via cercata in alternativa al negare l’altro, reificandolo, o al renderlo simile a noi, antropomorfizzandolo, consiste nell’incontrare l’altro, nel riconoscerlo nella sua specificità.

Si tratta di conoscere l’animale per quello che è, piuttosto che per quello che non è, se raffrontato all’uomo. Occorre convincersi che è davvero poco illuminante il continuo rapportare le altre specie alla nostra, come se essa rappresentasse l’unico metro di giudizio.

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Gustave Dorè, dalle Favole di La Fontaine, 1867

Chi sono, loro – si chiede Hillman – che hanno formato il massimo sistema simbolico della coscienza umana dai tempi di Altamira? E noi come viviamo con loro, ora che questa intimità con il loro mondo e con la nostra animalità ha ceduto il passo alla separazione? Pur separati dalle nostre vite – a eccezione dei cuccioli che coccoliamo, feticci residuali di una comunione arcaica – essi ci perseguitano nei sogni e nelle fantasie artistiche delle nostre poesie, dei film e dei romanzi.[14]

Purtroppo l’animale, anziché il referente concreto di una relazione, diviene un essere immaginario, fantasiosamente reinventato in termini narrativi, cinematografici, letterari, su cui – come si è visto – si proiettano emozioni e desideri rimossi e nei cui confronti si sviluppano sentimenti ambivalenti: nostalgia e attrazione, ma anche angoscia e paura. Occorrerebbe partire dalla stessa parola ‘animale’, usata al singolare, un “concetto tuttofare” – così lo definisce Jacques Derrida – come se tutti i viventi non umani, al di là delle differenze abissali, costituissero un insieme omogeneo al quale si opporrebbe radicalmente l’”uomo”. Non è forse già questa una prima violenza?

In questo concetto tuttofare nel vasto campo dell’animale, al singolare generale – scrive Derrida – sarebbero chiusi, come in una foresta vergine, in un parco zoologico, in un territorio di caccia o di pesca, in un terreno d’allevamento o in un macello, in uno spazio per l’addomesticamento, tutti i viventi che l’uomo non riconosce come suoi simili, prossimi o fratelli. E questo nonostante l’infinita distanza che separa la lucertola dal cane, il protozoo dal delfino, lo squalo dall’agnello, il pappagallo dallo scimpanzè, il cammello dall’aquila, lo scoiattolo dalla tigre o l’elefante dal gatto, la formica dal baco da seta o l’istrice dall’echidna. Interrompo qui l’elenco e chiamo in aiuto Noè per non dimenticare nessuno nell’Arca.[15]

Se, da un lato, grazie anche all’apporto di scienze come l’etologia, i confini tra mondo animale e umano si stanno sempre più sfumando e quindi dovrebbe potersi verificare un maggiore avvicinamento, dall’altro si registra una crescente lontananza provocata da una serie di fattori che condensano nel concetto di ‘civilizzazione’, teorizzato magistralmente da Norbert Elias.

Basti citare il fenomeno dell’urbanizzazione che comporta una perdita di familiarità e di comunicazione e genera i sentimenti di estraneità per ciò che è ‘organico’, identificato con l’infetto, i timori di contagio (zoonosi) e, in generale, il fastidio per l’istintualità animale; la progressiva concentrazione e specializzazione delle attività rurali e l’affermarsi dell’allevamento intensivo che ha condotto a una vera e propria meccanizzazione della vita animale.

E’ possibile contrastare tali tendenze? Oggi una nuova visione del rapporto uomo-animale si sta elaborando, nell’ambito sia della cultura scientifica che in quella umanistica, grazie al contributo di discipline di confine come la bioetica, la zooantropologia, la zoosemiotica, variamente impegnate a sostituire a una concezione rigidamente discontinuista una concezione aperta e dinamica delle relazioni interspecifiche.

Che effetto fa essere un pipistrello?

Ritorniamo alla riflessione di Alain. Noi oggi sappiamo indubitabilmente che il vitellino ama la madre e teme la morte. Le nostre conoscenze sulla vita animale sono aumentate in maniera tale da indurci a riconsiderare le nostre precedenti assunzioni: non solo non possiamo presupporre l’insensibilità o l’assenza di attività mentale ma, viceversa, dobbiamo tener conto di una serie di dati fattuali e scientifici che dimostrano analogie di comportamenti, anche complessi, tra umani e non umani. Si pensi alle recenti ricerche relative ai sistemi di comunicazione nelle specie non umane, all’individuazione di una struttura linguistica di tipo sintattico usata dai primati: una capacità che veniva attribuita finora solo agli esseri umani. O alla scoperta che esiste un ‘regno del piacere’ per gli animali, un ‘istinto di star bene’ che non è dettato solo dall’assolvimento dei doveri biologici.

Penetrare fino in fondo nella mente di un animale non è possibile, ma si sa ormai per certo che il meccanismo del piacere sia simile negli uomini e nelle specie più evolute dei mammiferi. In entrambi i casi, infatti, la sequenza: comportamento gratificante, sensazione di piacere e desiderio di reiterare l’azione, viene mediata dagli stessi circuiti cerebrali e neurotrasmettitori. Quali potrebbero essere le conseguenze sul piano etico? Una nuova credenza – ci ricorda Charles L. Stevenson – può condurre a una diversa attitudine, giacché è un fatto psicologico che credenze modificate possono causare attitudini modificate. Le attitudini sono spesso funzioni delle credenze. Cambiamo spesso le nostre attitudini verso una qualche cosa quando cambiamo le nostre credenze su di essa; proprio come un bambino cessa di voler toccare del carbone quando giunge a credere che esso lo brucerà.[16]

Si tratta di un rilievo della massima importanza se applicato alla bioetica animale. Senza violare la ‘legge di Hume’ – secondo la quale non è possibile derivare da nessuna asserzione di fatto una conclusione di valore, a meno di presupporre altre asserzioni di valore – possiamo ritenere che considerazioni di carattere fattuale e scientifico costituiscano ‘buone ragioni’ per fondare un giudizio valutativo.

Si pensi al saggio di Thomas Nagel Che effetto fa essere un pipistrello? e alle sue conclusioni scettiche.[17] E’ possibile – si chiede Nagel – penetrare nella vita interiore di un pipistrello – una specie vicina a noi (in quanto mammiferi) ma dotata di apparati sensori così differenti dai nostri da renderla fondamentalmente estranea – e riprodurne l’esperienza partendo dalla nostra? Posso certo usare la mia immaginazione ma essa è limitata. Non servirà a nulla cercare di immaginare che abbiamo membrane palmate sugli arti che ci permettono di volare qua e là nel crepuscolo e all’alba, per acchiappare insetti o che passiamo le giornate appesi a testa i giù in una soffitta. Per quanto possa sforzarmi, tutto questo (e non è molto) mi dirà soltanto che effetto farebbe a me comportarsi come si comporta un pipistrello. Ma la questione non è questa: io desidero sapere che effetto fa a un pipistrello essere un pipistrello. Le risorse della mia immaginazione si rivelano inadeguate a tale scopo: anche se, per ipotesi, riuscissi a metamorfosarmi in un pipistrello, attraverso mutamenti graduali, sarebbe sempre un me stesso trasformato quello di cui parlerei.

Fermiamoci qui. Quella di Nagel è evidentemente una domanda paradossale che mira a sottolineare i limiti del nostro conoscere e il carattere irriducibilmente soggettivo della nostra esperienza. Sennonché, occorre chiedersi, l’impossibilità di sapere “che effetto fa essere un pipistrello?” ci condanna senza appello a una conclusione scettica? Non lo credo. Il fatto che non possiamo sperare in alcun modo di tradurre nel nostro linguaggio le esperienze di vita di altri esseri a noi estranei, come gli animali, non comporta che dobbiamo negarne l’esistenza. Non possiamo, in altri termini, negare la realtà di ciò che non riusciamo a descrivere e a comprendere pienamente.

E’ proprio necessario “stare nella pelle” di un altro animale per sapere ciò che gli accade e quindi ciò che è bene per lui? Troppe volte questa conclusione scettica è servita agli uomini come un comodo alibi. Esistono parametri scientifici del benessere animale, per ciascuna specie, compilati da etologi, quindi da studiosi non sospetti di sentimentalismo zoofilo. Lo stesso antropomorfismo – la tendenza che abbiamo noi umani a interpretare a nostra immagine e somiglianza ciò che umano non è – è ora almeno in parte rivalutato, se assunto in senso critico.

Certo, non potremo mai sapere in senso proprio ‘che cosa significa per un pipistrello essere un pipistrello’, ma l’accresciuta conoscenza del suo comportamento, delle sue abitudini, delle sue funzioni potrà aiutarci a liberarci dai pregiudizi e favorire quindi ‘un’etica del riconoscimento’.

Tra Hestia ed Hermes

L’instaurazione di un rapporto corretto con gli animali non può comunque che passare, in via preliminare attraverso l’eliminazione di ogni stereotipia: compito assai difficile, data la straordinaria implicazione di diversi stereotipi, sia negli atteggiamenti popolari che in molte istituzioni contemporanee. Superare la stereotipia significa accettare gli animali come animali, considerarli, in primo luogo, non più attraverso le lenti deformanti delle nostre angosce e paure, ma guardarli come realmente sono, sulla scorta delle conoscenze fornite dall’etologia, dalla zoologia, dalla psicologia, etc.: creature senzienti e consapevoli, forniti di interessi e dotati di intrinseco valore. Si tratta indubbiamente di un percorso non facile, poiché la stereotipia si nutre di forze inconsce e sotterranee e quindi non si lascia agevolmente eliminare attraverso il ricorso all’esperienza (la quale è, a sua volta, spesso predeterminata dagli stereotipi).

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Gustave Dorè, dalle Favole di La Fontaine, 1867

Si apre un enorme campo problematico, sia per le scienze comportamentali sia per il pensiero filosofico. Infinite sono le domande: gli animali hanno delle rappresentazioni? Un ‘io’? Un’immaginazione? Un rapporto al futuro? Una percezione della morte? Un sentimento del lutto? E ancora: come definirne le emozioni: la gioia, la noia, il gioco, il sogno, il pianto? Domande relative alla soggettività animale che sono altrettante sfide per la nostra riflessione. Occorrerebbe, a questo punto, chiedersi – ed è questione, a mio avviso della massima importanza – perché solo pochi filosofi siano seriamente interessati a studi etologici e psicologici che, consentendo di evadere dalle strettoie delle impostazioni canoniche come dai discorsi del senso comune, potrebbero costituire uno straordinario arricchimento, sul piano interdisciplinare, del dibattito bioetico.

Per la psicologia, e per noi nella misura in cui siamo psychai – avverte Hillman – gli animali sono il vero problema. Sicuramente non possiamo accontentarci di credere che siano soltanto una parte di noi racchiusa nelle nostre teste come rappresentazioni delle nostre brame, delle nostre bestialità e della bellezza istintuale, un’antologia di metafore riferentisi alle nostre fisionomie e ai comportamenti che ci sono propri, come se ciascuno di noi fosse un Noè capace di accogliere al suo interno l’intero regno animale.[18]

La psicologia ha dunque un debito particolare nei confronti degli animali se è vero che essi sono il sistema simbolico primordiale e se non ha completamente dimenticato che anche noi siamo animali… Come potremo dunque comprendere noi stessi in quanto umani se non ritroviamo la familiarità con le loro immagini?

L’uomo scopre negli animali la barriera di un’alterità che, proprio perché irrappresentabile e indicibile, chiede di essere interrogata e conosciuta come limite interno. L’altro è colui che – guardato – non mi restituisce l’immagine speculare di me stesso, delle mie categorie, delle mie certezze giacchè crea un elemento di sconcerto, di perturbazione: mi costringe a mettermi in discussione, mi rammenta la mia incompletezza, il mio essere un punto di vista. Ma l’altro non è solo fuori di me, abita anche dentro di me. L’animale, in tal senso, non è mai un alieno.

Passare un ponte, traversare un fiume, varcare una frontiera – ci ricorda Jean-Pierre Vernant – è lasciare lo spazio intimo e familiare ove si è a casa propria per penetrare in un orizzonte differente, uno spazio estraneo, incognito, ove si rischia – confrontati a ciò che è altro – di scoprirsi senza “luogo proprio”, senza identità.[19] Vernant ricorda che i Greci espressero la polarità tra un ‘dentro’ rassicurante e stabile e un ‘fuori’ inquietante e aperto sotto la forma di una coppia di divinità unite e opposte: Hestia, la dea del focolare, sedentaria e protettiva, ed Hermes, il dio nomade e vagabondo. La prima mette al riparo i tesori nei segreti della casa, il secondo, incurante dei confini, è maestro degli scambi. Divinità dunque che si oppongono ma anche che si richiamano indissolubilmente, mostrando agli umani la necessità di assumere sia la parte di Hestia che la parte di Hermes, e quindi di mantenere un ‘dentro’ capace di aprirsi al ‘fuori’e di accoglierlo in sé.

Nel nostro confronto con quella che è probabilmente l’alterità più radicale – l’animalità – avvertita spesso come una minaccia per la nostra stessa condizione umana (“ Non siamo mica bestie!”) dovremmo, seguendo il suggerimento di Vernant, sforzarci di essere insieme Hestia ed Hermes, conservando il ‘dentro’ di una tradizione – l’umanesimo nella sua versione naturalistica – per poterci aprire al ‘fuori’ del non umano.

Una riflessione filosofica che voglia davvero fare i conti con l’alterità non può che collocarsi sulla frontiera di due sguardi, quello dell’animale e quello dell’uomo. “Pensare”, forse, comincia proprio da qui.


Bibliografia essenziale

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Paul Eluard, Les animaux et leurs hommes: Les Hommes et leurs animaux, H. Jourde, Paris 1937: Gli animali e i loro uomini, gli uomini e i loro animali, trad. e introd. di Sandro Toni, Ed. Il cavaliere azzurro, Bologna 1987.

Michel Foucault, Histoire de la folie a l’âge classique, Paris : Plon, 1961; tr. it. Storia della follia nell’età classica, a cura di Franco Ferrucci; prefazione e appendici tradotte da Emilio Renzi e Vittore Vezzosi, Ed. riveduta e aggiornata, Rizzoli, Milano 1980.

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Isidore de Lautréamont, Œuvres complètes, textes établis, présentés et annotés par Philippe Sellier, Bordas, Paris 1970; tr. it. Opere complete. I canti di Maldoror, poesie, lettere con una nota introduttiva, un giudizio di Giorgio Celli e Antonio Porta, alcuni documenti e una bibliografia, Feltrinelli, Milano 1968.

Jules Michelet, L’oiseau, Hachette et C.ie, Paris 1856; tr. it. L’uccello, Sonzogno, Milano 1886.

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Platone, Il Politico, Introduzione, traduzione e note di Giovanni Giorgini, BUR, Milano 2005.

Plutarco, Anche le bestie sono esseri razionali, a cura di G. Indelli, Ed. M. D’Auria, Napoli 1996.

Rainer M. Rilke, Duineser Elegien (1923) trad. it. Elegie duinesi, trad. di Enrico e Igea De Portu, Einaudi, Torino 1978.

Charles L. Stevenson Ethics and Language, Yale U.P. 1944; tr. It. Etica e linguaggio a cura di Silvio Ceccato, Longanesi, Milano 1962.


Note

[1] M.C. Nussbaum, Nascondere l’umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, tr. it. Carocci, Roma 2005, p. 98.

[2] J. Hillman, Oltre l’umanismo, tr. it., Moretti & Vitali, Bergamo 1996, p. 72.

[3] Ivi, p. 74

[4] J. Michelet, L’Uccello, tr. it., Sonzogno, Milano 1986, p. 205. Sul concetto di ‘alibi’ rinvio a L. Battaglia, Alle origini dell’etica ambientale. Uomo, natura, animali in Michelet, Thoreau e Gandhi, Dedalo, Bari 2002.

[5] M. Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, tr. it., Adelphi, Milano 2000, p. 300.

[6] A. Schopenhauer, Il fondamento della morale, tr. di Ervino Pocar. Introduzione di Cesare Vasoli, Laterza, Bari 1970, p. 87.

[7] P. Martinetti, Breviario spirituale, Bresci, Torino 1972, pp. 228-9.

[8] J. Derrida , L’animale che dunque sono, tr. it., Jaca Book, Milano 2006, p. 51.

[9] M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, tr. it. San Paolo, Milano 1993, p. 129.

[10] J. Derrida, op. cit., p. 49.

[11] Per un approfondimento rinvio a L. Battaglia, Aldo Capitini. Per un’etica della cura oltre l’umano in B. De Mori e P. Zecchinato, a cura di, Lo specchio e l’altro. La cura nel rapporto uomo/animale, Mimesis, Milano 2008.

[12] L. Lombardi Vallauri, Animali: istruzioni per il non uso in L. Battaglia, a cura di, Dignità. La nuova frontiera dell’animalismo, “Argomenti di Bioetica” a. I, n.2, dicembre 2007, p. 161.

[13] M. de Montaigne, Apologia di Raimondo Sebond, tr. it. in Saggi, a cura di V. Enrico, Mondadori, Milano 1986, p. 132.

[14] J. Hillman, Animali del sogno, tr. it., Cortina, Milano 1991, p. VII.

[15] J. Derrida, op. cit., p. 73.

[16] C.L. Stevenson, Etica e linguaggio, tr. it. a cura di Silvio Ceccato, Longanesi, Milano 1962.

[17] T. Nagel , Questioni mortali, tr. it., Ed. Il Saggiatore, Milano 1998.

[18] J. Hillman, Animali del sogno, cit, p. VII.

[19] J. P. Vernant, Senza frontiere: memoria, mito, politica, tr. it. a cura di G. Guidorizzi, Cortina, Milano 2005.


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