Medicina dotta e medicina popolare: il Liber de simplici medicina di Matteo Plateario e la scuola chirurgica di Preci

di Ida Li Vigni

Scopo del presente intervento non è una ricostruzione della storia, per altro scarsamente documentata antecedentemente al XVI sec., della scuola chirurgica di Preci, bensì il tentativo di individuare, a partire da una realtà di “bassa” medicina quale è stata almeno fino al Cinquecento la chirurgia, le strette correlazioni fra un sapere medico “domestico”, fondato sulla fitopratica delle donne, ed un altro pratico che a quelle conoscenze guarda con interesse e rispetto. Rispetto che, almeno per quanto riguarda le competenze muliebri, purtroppo verrà ben presto a cadere (già a partire dal XIII sec.) e a trasformarsi in sospetto e intolleranza, con poco benevoli accenni alle vetulae o alle mulieres, le abili guaritrici di villaggio, colpevoli di affiancare ad una notevole conoscenza dei poteri curativi e lenitivi delle piante un formulario e una gestualità magici in odore di demoniaco agli occhi sia degli uomini di Chiesa sia dei supponenti medici delle Università.

Ma questa è un’altra storia ancora tutta da scrivere. Torniamo quindi al nostro discorso.

Sant'Eutizio_Abbey

L’abbazia di Sant’Eutizio

Come si accennava sopra, la chirurgia, nel mondo Occidentale, nei secoli che ci interessano (XII- XV, ma anche precedentemente), ha rappresentato una branca minore, se non infima, del sapere medico, relegata allo status di semplice operatio (chirurgia significa “fare con le mani”), cioè di un’arte fondata non sulla dottrina ma sull’usus, ovvero non insegnata ma appresa per imitazione. Si dedicano ad essa gli empirici, inizialmente indifferentemente barbitonsores, flebotomi e cerusici, quanti cioè non guardano alle cause occulte dei mali nascoste nelle profondità del corpo cercando poi di sistematizzare filosoficamente le osservazioni in modo da rendere l’invisibile e l’ignoto visibili e spiegabili razionalmente, ma osservano i segni esterni fermandosi alla superficie del corpo e intervenendo manualmente su di esso, senza sentire il bisogno di tradurre la pratica operativa in inutile orpello dottrinario. Proprio perché rivolti alla cura esteriore del corpo praticano un’arte “sporca”, disdegnata dai medici aulici ma indispensabile perché molto spesso la sola in grado di apportare un beneficio. Il che spiega bene la lunga battaglia condotta contro i cerusici dai “veri” medici, volta a contenere e a separare professionalmente gli ambiti, a differenziare una medicina “pulita”, che osserva il corpo ma non lo tocca e che cura guardando all’interno, da una medicina “sporca”, che manipola il corpo e lo cura all’esterno.

I cerusici infatti praticano i salassi, acconciano le ossa, estraggono calcoli, operano la cataratta, medicano le ferite e applicano cataplasmi, quando non estraggono denti, spurgano fistole e ascessi o praticano l’orchiectomia (intervento richiestissimo, quest’ultimo, e fonte di alti introiti allorquando venne di moda la discutibile moda musicale dei castrati). Una pratica lontanissima dall’ars del medico istituzionale, il physicus, il quale non visita il corpo del paziente ma opera la diagnosi secondo una precisa sequenza di atti che vanno dalla auscultazione del polso (uno dei rari, se non il solo, momenti di contatto fisico), all’anamnesi dei sintomi raccontati dal paziente o osservati dai famigliari, all’osservazione delle orine, allo studio dell’oroscopo, per giungere infine al vaglio dei dati raccolti alla luce della griglia metodologica offerta dall’allora dominante teoria umorale.

Cerusici, o meglio chirurghi (dato che con questo termine a partire dal Trecento si tenderà a distinguere i praticoni dai “professionisti”, dotti ed esperti, ormai iscritti ad un albo professionale, anche se con un ruolo subordinato rispetto ai physici), anzi medici vulnerum, secondo il titolo che sarà proprio alla categoria dei norcini, sono gli operatori di Preci, che incominciano ad imporsi in ambiente umbro-marchigiano a partire dal Duecento e che vedono nei secoli successivi accrescere la loro fama nella Penisola e all’estero, tanto che nel secolo XVI si parla ormai di scuola chirurgica preciana, sia pur in modo indebito dato che si tratta di un sapere trasmesso per linea famigliare e non all’interno di una vera scuola, come attesta questa dichiarazione di Durante Scacchi, autore del primo trattato di chirurgia preciana pervenutoci, il Subsidium Medicinae (1609):

“… il minimo di quelli che oprarà meglio di un theorico e pratico straniero, perciocchè oltre che siano in ciò nati non solo essi, ma gli Avi dei loro bisavi, fanno tra loro belli e ragionevoli discorsi delle cose a ciascuno advenute in tali operationi, onde i putti mentre vengono crescendo, sentendo e risentendo tante volte, prima che si mettano ad impararla, ne sanno più degli stranieri professi …”.

Il trattato dello Scacchi, unitamente ai documenti successivi e alle scarne informazioni relative agli inizi di questa tradizione chirurgica, ci mostra senza ombra di dubbio la natura sostanzialmente conservatrice e per così dire “popolare” della scuola di Preci, lontana da quella ”alta” chirurgia che la scuola di Parma, tra XII e XIII secolo, ovvero proprio quando fanno la loro comparsa i medici vulnerum di Preci e Norcia, con Ruggero dei Frugardi e il suo allievo Rolando Parmense stava fondando e che avrebbe presto dato maestri come Lanfranco da Milano o il francese Henri de Mondeville, per fare pochi nomi.

La pratica preciana sembra, infatti, limitarsi sostanzialmente a quattro campi, la litotomia, l’operazione di cataratta, la castrazione e l’erniotomia, con un’eccellenza nei primi tre conquistata non per una vera e propria evoluzione delle tecniche operatorie ma per un perfezionamento secolare di tecniche tradizionali d’origine sia ippocratico-galenica, rinvenibili tanto nel De re medicina di Cornelio Celso quanto nello strumentario chirurgico, straordinariamente affine a quello romano, sia arabo-islamica, con l’indubbia mediazione della grande scuola di Salerno, documentata dalle glosse alla Cyrurgia di Ruggero. Nella sostanza la gloriosa fama dei norcini non poggia né sulla capacità di affrontare molteplici emergenze o necessità d’intervento chirurgico né sulla ricerca/adozione di nuove tecniche, come ad esempio l’incisione mariana (da Mariano Santo, 1522) o incisione con il grande apparato introdotta dal chirurgo cremonese Giovanni de Romanis nel XVI sec. nel campo della litotomia, bensì per l’alto grado di perfezionamento in tecniche ben sperimentate che assicurava un largo margine di riuscita agli interventi.

Ma se la scuola preciana non è innovativa sul piano della tecnica operatoria, si impone tuttavia per un aspetto, forse non del tutto originale ma sicuramente rilevante: il ricorso a rimedi fitoterapici sia al fine di evitare l’intervento sia per preparare e aiutare il paziente prima, durante e dopo l’operazione. Ne sono testimonianza, a partire purtroppo dalla fine del Cinquecento, le scarne documentazioni scritte che i chirurghi preciani ci hanno lasciato e che rimandano a un patrimonio di cognizioni non banali, consolidatosi nei secoli e facilmente confrontabile con il materiale raccolto sia negli erbari medievali e rinascimentali (dal Plateario al Mattioli, soprattutto), sia nelle testimonianze sulle pratiche curative popolari ancora in auge nelle nostre campagne fino a qualche decennio fa. Non si tratta di una vera e propria farmacopea ma piuttosto di elenchi di piante cui si riconoscono virtù litontritiche, diuretiche, oftalmiche, cicatrizzanti e analgesiche e che rimandano in netta prevalenza alla flora locale, a rimedi facilmente reperibili in loco e quindi di costo contenuto, come l’uva orsina, presente nel territorio del monte Vettore, il mirtillo, la parietaria, il narciso d’inverno, il mirto selvatico, l’erba morella, il faggio, e così via, come vedremo più avanti.

Proprio questi aspetti, la reperibilità e il basso costo, meritano di essere evidenziati, dato che ci permettono di collocare i preciani come ponte ideale fra la medicina dotta, rappresentata al tempo dei loro esordi dai magistri della scuola salernitana, e quella popolare, locale, cui i nostri chirurghi dovevano fare inevitabilmente riferimento non fosse altro che per il contatto quotidiano con le pratiche della medicina domestica, appannaggio privilegiato delle donne.

Ecco che allora non ci sembra del tutto infondato trovare nel salernitano Matteo Plateario, l’innovativo autore del Liber de simplici medicina, l’autorità cui i preciani potevano fare ricorso per legittimare la validità delle loro cure. Il Plateario, infatti, non solo offre un impianto metodologico accessibile e condivisibile a tutti gli operatori medici del tempo, compresi i poco considerati erboristi e chirurghi, ma altresì riconosce, con frequenti citazioni, il suo debito nei confronti di quel sapere medico femminile che, caso eccezionale nella storia dell’Occidente, per due secoli (XI-XII) a Salerno ebbe possibilità di esprimersi e di operare a livello d’ufficialità.

Circa l’impianto metodologico, merita di essere citato l’incipit dell’opera dove, accanto alla difesa dell’impiego dei rimedi semplici rispetto a quelli composti (una posizione destinata a ribaltarsi nei secoli successivi, quando il farmaco, per essere efficace, doveva essere costituito con sempre più numerosi rimedi, anche e soprattutto esotici e costosi), si trovano preziose indicazioni sul sistema di “schedatura” utilizzato:

“… Scopo di quest’opera è trattare dei semplici (medicamenti). Occorre precisare che la medicina viene detta semplice quando è la natura stessa a produrla, come, per esempio, nel caso del chiodo di garofano o della noce moscata. Viene detta semplice anche se è prodotta con qualche artificio, purché non sia mescolata ad altra medicina …

… Trattando delle singole medicine, sarà considerato in primo luogo il loro temperamento (se cioè esse sono calde, fredde, umide o secche); quindi verrà specificato se si tratta di erba, fiore, seme, foglia o succo; quindi quante specie ne esistono; in quale luogo le si trova; quali sono le migliori; di quelle che necessitano di preparazione, verrà spiegato come ottenerle; per quanto tempo si può conservarle; infine, quali sono le loro virtù e come bisogna somministrarle.”

Un invito e una tecnica di esposizione che di certo andavano incontro alle convinzioni e alle esigenze di operatori semidotti, quali appunto erano i chirurghi preciani, più usi alla pratica che alla disquisizione dottrinaria, desiderosi di trovare raccolti in un testo quei rimedi naturali di cui già conoscevano le virtù per esperienza diretta.

Quanto all’occhio di riguardo al sapere femminile, ci sembra che non poteva essere altrimenti, se si considera che Matteo, discendente di una casata che domina tra gli auctores e i magistri illustri salernitani, è nipote sì di Giovanni Plateario I ma anche della “quasi magistra” Trotula, ricordata dai testi salernitani (accanto ad altre compagne come Rebecca, Calenda, che visse alla corte di Giovanni I di Napoli, e Abella, autrice audace di un trattato De natura seminis hominis) come sapiens matrona o mulier sapientissima, autrice di un Trattato sulle malattie delle donne a tal punto innovativo da essere attribuito per secoli a mano maschile.

Se è vero, come probabilmente è, che la persona citata da Matteo alla voce Calaminta nel Liber de simplici medicina è proprio la nonna Trotula, qui guarita in virtù delle proprietà antispasmodiche, stimolanti e digestive della calamintha officinalis (“… in questo modo guarì anche la madre di Platearius, un maestro di Salerno.”), non dovrebbe essere inverosimile pensare che Matteo abbia avuto modo, in un ambito culturale straordinariamente aperto ad ogni apporto e suggerimento, di ben conoscere e apprezzare la medicina delle donne, tanto da farla entrare nel suo testo come una vera auctoritas, al fianco dei più rodati e quotati Ippocrate, Galeno, Dioscoride.

Non mancano le prove. Così, sempre alla voce “calaminta”, dopo il citato ricordo della nonna, troviamo questo riferimento:

“… per le lavande dell’utero, fare un fomento di acqua in cui è stata cotta questa erba: le donne di Salerno che l’hanno sperimentato sostengono che questo rimedio è molto efficace.”,

mentre alla voce “rosmarino”, sempre affrontando il campo ginecologico, Matteo afferma:

“… Per pulire il ventre o favorire il concepimento, bagnare le parti naturali con l’acqua di cottura del rosmarino. Le donne di Salerno cuociono i fiori di rosmarino nell’olio e li applicano dal di sotto.”

E ancora, alla voce “cyclamen, ciclamino”:

“… Le donne di Salerno colgono il ciclamino l’ultimo giovedì del percorso della luna e se lo mettono sulla milza. Sulla soglia della stanza del paziente, tagliano in tre il ciclamino con una scure e chiedono al paziente: “Che cosa tagli?”, ed egli risponde: “La mia milza”. Poi appoggiano la pianta sopra gli escrementi dicendo: “Come si seccheranno i pezzi di questo ciclamino, così si seccherà la milza di questo paziente”. Quindi ungono la milza del malato con l’unguento sopra descritto (… pestare diverse radici di ciclamino e lasciar macerare per quindici giorni in olio e vino. Poi filtrare, aggiungere della cera e un poco di aceto e cuocere fino ad ottenere la consistenza di un unguento …)”;

mentre alla voce papavero abbiamo:

“Le donne di Salerno danno ai loro bambini, per farli dormire, dei semi di papavero bianco con il proprio latte”.

Spianato il campo alla necessaria auctoritas di riferimento, torniamo ai nostri chirurghi preciani e al loro patrimonio di rimedi fitoterapici, cercando di verificarne di volta in volta, con un confronto con le indicazioni del Plateario, l’effettiva efficacia o la semplice adozione per “simpatia”, al di là di ogni ragionevole dubbio sulle proprietà delle piante utilizzate.

matplate

Matteo Plateario

Va subito ribadito che, vista la fama di cui godettero, i preciani, oltre che abili litotomi e incisori di cataratta, dovevano essere anche esperti fitoterapeuti, dato che senza tali conoscenze difficilmente sarebbero riusciti a portare a buon esito le loro operazioni. In primo luogo quindi dovevano conoscere bene le proprietà emostatiche, vulnerarie e cicatrizzanti, antisettiche e antinfiammatorie, antifebbrili e decongestionanti di talune piante come ad esempio l’equiseto, il salice, il cinquefoglie, l’erba borsa del pastore, il lentisco, la piantaggine, la pelosella. Poi dovevano padroneggiare l’uso di piante con proprietà diuretica, depurativa, deostruente, antiurica, azoturica, fosfaturica e uricosurica come il prugonolo, l’asparago selvatico, il rusco, il tarassaco, l’equiseto, la gramigna, l’erica, l’ortica, la genziana, la rosa di macchia, la piantaggine e la parietaria; piante con proprietà oftalmiche, come l’eufrasia, la ruta e il finocchio; e infine piante con proprietà antinevralgiche, come la verbena, la camomilla e il papavero.

Ogni specie aveva una sua particolare applicazione, anche se spesso le si riconoscevano proprietà diverse e inattese, sconfinanti nel magico e nel simbolico. Così, se nella maggioranza dei casi una pianta veniva consigliata sotto forma di decotto, impiastro, cerotto, tisana o siringatura per irrigazioni e lavaggi, talvolta le si riconosceva una forza particolare, tale da consentirle di agire anche per semplice contatto o soffio. Un dato, questo, che non deve distoglierci dalla natura assolutamente empirica e quindi funzionante della medicina preciana, ma che non può essere taciuto sia perché comunque condiviso dalla medicina alta, sia perché fino a qualche decennio fa ancora presente nelle pratiche di cura popolari.

Ma torniamo ad esaminare i rimedi fitoterapici dei nostri preciani.

Per facilitare l’esposizione divideremo le piante in quattro gruppi meramente indicativi (infatti molte delle piante citate hanno proprietà diverse e possono rientrare in altri gruppi); inoltre per ogni pianta si presenterà la voce tratta dal Plateario, da noi considerato verosimile “maestro” dei chirurghi preciani, confrontandola con le nostre moderne acquisizioni. Ovviamente non si tratterà di un’esposizione esaustiva, che richiederebbe troppo spazio, bensì di una silloge ridottissima ma a nostro avviso indicativa del sapere dei chirurghi preciani.

1. Piante con proprietà emostatiche, cicatrizzanti, antiflogistiche, antinfiammatorie, antifrebbili e decongestionanti

Bursa pastoris. borsa del pastore

“La borsa del pastore, chiamata anche sanguinaria perché arresta il flusso di sangue dal naso, … A chi soffre di rotture o rilasciamento delle vene, somministrare a digiuno la polvere di questa pianta in ottimo vino.

… La polvere di quest’erba mescolata al cibo è ottima per coloro che sono feriti o che hanno delle vene rotte. Anche il suo succo (o del cotone imbevuto nel suo succo) arresta il flusso di sangue dal naso (sotto la voce Sanguinaria. Digitaria)”.

Borsa di Pastore o Capsella bursa-pastoris (L)

Famiglia: Crocifere (Brassicacee)

Principi attivi: la pianta contiene amino-alcool: colina, acetilcolina, amino-fenolo e tiramina, nonché il flavonide diosmina.

Proprietà: emostatiche e uterostatiche. La tiramina è simpatico-mimetica e ipertensiva.

Applicazioni, Preparazione: si utilizzano sia l’infuso della pianta essiccata sia l’estratto fluido. E’ un rimedio efficace nelle menorragie, dismenorrea e metrorragia. La tintura omeopatica si usa nelle emorragie nasali e degli organi interni ma anche nei casi di cistiti e litiasi delle vie urinarie.

Ippirium. equiseto

“L’equiseto, chiamato anche stellina odorosa o coda cavallina o codone, è freddo e secco e per questo motivo agisce da astringente.

Contro i flussi sanguinolenti del ventre, somministrare il succo di questa erba. Possono berlo anche i pazienti nel cui espettorato si trovano tracce di sangue, ma sarebbe meglio che masticassero l’erba in modo che il succo non arrivi troppo velocemente allo stomaco”.

Equisetum arvense (L)

Famiglia: Equisitacee (Equisetum arvense)

Principi attivi: la pianta è ricca di silice; contiene i glucosidi isoquercitrina, luteolina e canferolo, ma anche potassio e silice valorizzati dall’equisetonina, che è un saponoside. Vi sono tracce di alcaloidi (nicotina).

Applicazioni, Preparazione: nel passato si considerava un potente vulnerario, capace di arrestare le emorragie, guarire le ulcere (succo, decotto o applicandolo esternamente), rimarginare le ferite e curare le fratture; veniva usata anche per trattare urinazione dolorosa, calcoli renali, infezioni renali, infezioni dell’apparato urinario e idrope (insufficienza cardiaca congenita). La pianta oggi è utilizzata in decotto come rimineralizzante nella terapia della tubercolosi polmonare nonché come diuretico. Si prende nei casi di emorragie nasali e degli organi interni. In omeopatia si usa la tintura della pianta fresca nelle cistiti, anuresi e tubercolosi polmonare

 Lentiste. lentisco

“Il lentisco è un alberello caldo e secco (è comunque più secco che caldo). Quando nelle ricette è prescritto il lentisco, bisogna usare anche le foglie. Ha la proprietà di chiudere, rassodare e cicatrizzare le piaghe.

… Contro le screpolature della verga, fare seccare le foglie di lentisco su una tegola calda, polverizzarle e applicare la polvere ottenuta; toglierà il pus e cicatrizzerà le piaghe; non bisogna utilizzarla se non in presenza di pus o di infezioni varie.”.

Pistacia lenticus

Famiglia: Anacardiacee.

Principi attivi: nessuno

Applicazione, Preparazione: da questa pianta si ricava la resina mastice o mastice “in lacrime”. Attualmente non viene più utilizzato.

Piantaggine lanceolata

“La piantaggine lanceolata … Per far chiudere e cicatrizzare ferite antiche e recenti, preparare un unguento di succo di piantaggine con grasso di maiale, sego di montone, trementina, incenso e cera in quantità sufficiente”.

 Piantaggine minore

“La piantaggine minore è efficace contro le fistole: introdurre il suo succo nella fistola e ripetere questa operazione per diversi giorni.

… Contro le malattie della vescica: fare bere il succo estratto dall’erba pestata assieme alla radice.

 Piantaggine

“La piantaggine, che viene chiamata anche piantaggine maggiore, cresce in luoghi cavi e umidi e nei campi.

Per guarire ogni tipo di piaga infetta, applicare della polvere di semi di piantaggine.

… Sugli ascessi appena aperti e sui foruncoli, applicare le foglie pestate con del grasso vecchio non salato..”

Plantago lanceolata (L.) e Plantago major (L)

Famiglia: Plantaginacee

Principi attivi: la pianta intera contiene delle mucillagini e un eteroside cromogenico: l’aucuboside, che si scinde per idrolisi in aucubina e zucchero.

Proprietà: antidiarroico, espettorante, edulcorante, cicatrizzante.

Applicazione, preparazione: si utilizza la pianta intera in decotto, nonché lo sciroppo e l’estratto fluido per curare le affezioni catarrali delle vie respiratorie, la bronchite, l’asma, la tubercolosi polmonare. Per uso esterno, le foglie sono cicatrizzanti. Ha utilizzo anche oftalmico: il collirio è indicato nelle congiuntiviti e nelle infiammazioni delle palpebre.

La Plantago major possiede anche proprietà diuretiche.

 Pelosella

“E’ un’erba che cresce ai piedi delle montagne … Ha virtù cicatrizzanti e disinfettanti.

Per una cicatrizzazione rapida di ferite recenti, è opportuno ungere le ferite con il succo della pianta mescolato a cera, olio e trementina, oppure cospargerle con la polvere delle sue foglie.”.

Hieracium pilosella (L.)

Famiglia: Compositae (Asteracee)

Principi attivi: un ombelliferone, sostanza antibiotica cumarinica, olii essenziali, tannino e flavoni.

Proprietà: diuretico, colagogo, astringente.

Applicazioni, Preparazione: antibiotico contro alcune brucellosi (morbo di Bang) e in certi casi di diarree gravi. Si utilizza anche per gargarismi (infuso) e, sotto forma di polvere, può essere annusata in caso di emorragia nasale.

Dal Codex Vindobonensis 93 (Erbario dello Pseudo Apuleio)

Dal Codex Vindobonensis 93 (Erbario dello Pseudo Apuleio)

2. Piante utilizzate nel campo dell’apparato urinario perché aventi proprietà diuretica, depurativa, deostruente, antiurica azoturica, fosfaturica e uricosurica

Acacia di Germania

“L’acacia è fredda e secca al secondo grado. Il succo delle prugnole selvatiche acerbe si ottiene nel seguente modo: si colgono le prugnole prima che raggiungano la maturazione e se ne spreme il succo che si fa poi seccare al sole. Questo succo secco si chiama acacia di Germania. Si può conservare un anno. Ha qualità astringenti e rafforzanti.

Sugli apostemi caldi, applicare immediatamente un miscuglio d’acacia e succo di piantaggine o succo di poligono (o di qualsiasi altra erba fredda tritata)”.

Prunus spinosa (L)

Famiglia: Rosacee

Principi attivi: i fiori contengono i glucosidi canferolo e amigdalina (quest’ultima si perde nell’essicamento).

Proprietà: i fiori sono diuretici e debolmente lassativi. Il frutto, ricco di vitamina C, fortifica stomaco e vescica.

Applicazioni, Preparazione: i fiori sono oggi usati in omeopatia. La tintura è indicata come diaforetica, diuretica e lassativa.

Cerasa. ciliegia

“L’albero delle ciliege è piuttosto comune. … sono diuretiche e conferiscono un bel colorito.

… I noccioli di ciliegia puliti della loro scorza sono efficaci contro la stranguria, la disuria e le pietre (bisogna mescolarli al vino).

La resina del ciliegio è efficace contro le piriasi di qualsiasi tipo: in questo caso, mescolare la resina con aceto e spalmare il composto sulle parti malate: il rimedio è stato sperimentato molte volte.”

Prunus cerasus (L)

Famiglia: Rosacee

Principi attivi: acidi organici, flavonidi, sali potassio.

Proprietà: astringente, diuretico.

Applicazioni, Preparazione: i frutti sono utilizzati per preparare lo sciroppo officinale usato come correttore del sapore e aromatico per molte preparazioni farmaceutiche. I peduncoli dei frutti, seccati, ricchi di tannino, sono utilizzati come astringente e come diuretico, a causa della presenza alta di sali di potassio e di flavonidi.

Questo infuso sembra essere sconosciuto alla medicina medievale e rinascimentale che, seguendo il principio di analogia, prescrivono l’uso dei noccioli contro la renella (“nucleus lapidem tibi tollet”, “il nocciolo ti libererà dalla pietra”).

Gentiana. genziana

“La genziana è calda e secca al terzo grado. In medicina, non si utilizza l’erba ma la radice che si coglie alla fine della primavera e che si fa essiccare. … La genziana ha la virtù di attirare, consumare e liberare gli umori e aprire i condotti: è diuretica..”

Gentiana lutea (L.)

Famiglia: Genzianacee

Principi attivi: contiene diversi principi attivi, particolarmente nelle radici: glucosidi amari genziopicroside, amarogentina e genziamarina

Proprietà: esercita un’azione tonica su tutto il sistema digerente; è stomatica nei casi di anoressia e dispepsia; è tonico coleretico e colagogo. Ha propietà vermifughe, febbrifughe, antireumatiche e leucocitogene.

Applicazioni, Preparazione: si utilizza la radice in decotto, in estratto e in tintura

Genesta. ginestra

“La ginestra è calda e secca al secondo grado. È un’erba abbastanza comune le cui foglie, fiori e semi vengono utilizzati in medicina. Ha virtù diuretiche, cioè, liberando i condotti della vescica, facilita l’urinazione. Tutto ciò grazie al gusto amaro e alla sua stessa natura.

Contro la pietra e altro impedimento a urinare, come la stranguria e la disuria, contro i dolori iliaci o le fitte del ventre, bisogna prendere, al mattino a digiuno, due dracme della polvere dei semi di ginestra con del vino bianco vecchio. Procedere allo stesso modo per la renella dei reni.”

Cytisus scoparius (L.) o Ginestra dei carbonai

Famiglia: Papilionacee (Faseolacee)

Principi attivi: i semi contengono diversi alcaloidi, di cui il principale è la sparteina assieme al flavonide, scoparoside, e ad amine aromatiche.

Proprietà: cardiotonico, ipertensivo, vasocostrittore, diuretico.

Applicazioni, Preparazione: le diverse sostanze attive oggi sono utilizzate isolatamente, ma la ginestra è ugualmente usata sotto forma di essenza nei casi d’insufficienza cardiaca. E’ efficace nella bradicardia e le aritmie. La sparteina pura è somministrata durante il parto per provocare i dolori e accelerare l’espulsione del bambino. I fiori hanno azione diuretica e sono utilizzati nelle malattie del fegato, nell’idropisia, nella nefrite e negli edemi

Gramen. gramigna

“La gramigna non è né molto calda né molto fredda. È un’erba abbastanza comune. La sua foglia assomiglia a quella dell’erba comune dei campi, ma è più frastagliata. La sua radice attecchisce con forza al terreno.

… Contro le malattie degli occhi, bisogna appendere quest’erba al collo del malato, dopo averla colta al tramonto della luna.

… Gli autori affermano che la gramigna, e in particolar modo la sua radice, libera i condotti della milza, del fegato e dei reni.”

Cynodon dactylon (L.)

Famiglia: Graminacee

Proprietà: intinfiammatorio, depurativo, diuretico.

Applicazioni, Preparazione: essendo il suo rizoma diuretico, rinfrescante e depurativo, viene ancora oggi consigliata da alcuni fitoterapeuti nei casi di infiammazione alle vie urinarie e digestive, contro le cistiti e le coliche nefritiche

Parietaria

“La parietaria è calda e secca al terzo grado. Viene chiamata anche vetriola o erba del vetro poiché pulisce molto bene i recipienti di vetro. È conosciuta anche come canicolare, erba del vento, ed erba muriola: cresce sui muri e sui tetti. Essiccata non possiede alcuna virtù. La si utilizza per liberare le vie urinarie e per scacciare gli umori.

Contro l’infreddatura dello stomaco e dell’intestino, contro gli impedimenti alla minzione: riscaldare su una tegola della parietaria senza aggiungere altro e applicare sul punto dolorante. Meglio ancora: cuocere della parietaria con della crusca di grano in un po’ di vino bianco leggermente agro.

… Le donne di Salerno, per curare le malattie descritte, preparano delle focaccine o delle crespelle fatte di parietaria e farina. In caso di gotta …”.

Parietaria (Officinalis?)

Famiglia: Uticacee

Proprietà: forse diuretica, antiinfiammatoria.

Applicazioni, Preparazione: nella medicina popolare viene indicata per le coliche dei neonati. E’ un significativo esempio di utilizzo per similitudine: come la parietaria cresce sui muri, così sarebbe in grado di sciogliere i calcoli e liberare dalla renella.

Bruscus. pungitopo

“Il pungitopo è caldo e secco al terzo grado. È un arboscello con il quale si fanno le scope da camino. Lo si trova, in grande quantità, nei boschi. Possiede proprietà diuretiche e dissolutive.

… Contro la stranguria, la disuria e contro i dolori iliaci, le polveri di pungitopo, semi di anice e di finocchio con altrettanto zucchero, prese al mattino a digiuno costituiscono un’eccellente medicina. Ma se il malato ha la febbre, somministrare con acqua e non con vino.

Contro i dolori e i gonfiori dei testicoli, applicare un impiastro di radice di pungitopo ben cotto, al quale si può aggiungere del grasso e della salvia; legare questo impiastro con una benda.”

Ruscus aculeatus (L.)

Famiglia: Liliacee

Proprietà: vasocostrittore, antinfiammatorio, diuretico antiedematoso

Applicazioni, Preparazione: molto utilizzato nell’antichità e nel Medioevo come componente del famoso sciroppo delle cinque radici (asparago, finocchio, prezzemolo, appio, pungitopo) e poi caduto in disuso, è stato oggi ripreso in considerazione per le sue proprietà di eccellente vasocostrittore (nelle varici) e di afficace antinfiammatorio e diuretico.

Sassifraga

“Deve il suo nome al fatto che spacca le pietre. È calda e secca al terzo grado.

Il vino nel quale è stata cotta la sua radice giova in caso di difficoltà nell’urinazione, contro le pietre, le fitte del ventre o dolori iliaci.

Essiccata, ridotta in polvere e somministrata con uova o altro cibo, è ottima per tutte le precedenti malattie.

Si deve sapere che quando nelle ricette si legge “prendere della sassifraga”, ci si riferisce alla sua radice mentre quando si parla di “litospermo” si intendono i suoi semi.

Radice e semi si conservano ottimamente tre anni.”

Saxifraga

Famiglia: Sassifragacee

Principi attivi: nessuno

Proprietà: nessuna.

Utilizzi: nell’antichità e nel Medioevo le veniva riconosciuto il potere di “anti-calcolo” in base al principio di similitudine (il nome deriva dal lat. Saxum frango, “rompo la pietra”).

Gli stessi poteri erano riconosciuti alla Saxifraga granulata, un’era dei prati e delle strade detta anche “erba renella”. Per secoli prescritta come diuretico antilitiasico, è stata abbandonata dal XIX sec. in quanto giudicata inefficace.

Urtica. ortica

“L’ortica è molto calda, poiché quando la si tocca essa brucia e punge; per questo motivo si chiama “urtica” cioè “che brucia”.

… Le sue foglie triturate con del sale, e applicate sulle ulcere o le piaghe piene di pus, le guariscono. La stessa medicina è usata per guarire i morsi dei cani, le ulcere e per cicatrizzare le carni e asciugare i cattivi umori.

… Averroè consiglia di mangiarne spesso per proteggersi dalla litiasi.”

Urtica dioica (L.)

Famiglia: Orticacee

Principi attivi: le foglie contengono una sostanza istaminica, acido formico, silice, potassio, tannino, glucochinine, clorofilla e vitamine A e C in tracce.

Proprietà: emostatico, antianemico, antidiabetico, diuretico, depurativo e galattogeno.

Applicazioni, Preparazione: le foglie sono utilizzate in infuso e in decotto. Entrano nella composizione di numerose tisane diuretiche. L’estratto fluido di foglie fresche è utilizzato in omeopatia negli eczemi, dismenorree, metrorragie, emorragie nasali ed emottisi. Se ne preparano lozioni che favoriscono la crescita dei capelli. Applicato esternamente, l’orticone cura le ferite e le ulcerazioni. Si può usare la pianta per frizionarsi contro i reumatismi.

Stesse sostanze attive e utilizzazione ha la Urtica urens o Ortica minore.

Berbena. verbena

“La verbena è fredda e secca. Cresce nei luoghi piani e molto umidi.

… Per sciogliere le pietre della vescica, somministrare della radice di verbena con una bevanda. Si otterrà presto un miglioramento che provocherà l’urina.

Contro le morsicature di cani rabbiosi e contro l’idropisia: tritare delle foglie di verbena, applicare come impiastro; è un ottimo rimedio..”

Verbena officinalis (L.)

Famiglia: Verbenacee

Principi attivi: due glucosidi, la verbenalina e la verbenina, un olio essenziale, tannino, mucillagine e un principio amaro.

Proprietà: diuretico, galattagogo, emmenagogo, velnerario, stimolante, antidiarroico.

Applicazioni, Preparazione: in infuso e decotto viene usata come vulnerario e in diverse affezioni e insonnie.

 Uva ursina

(Manca nel Plateario)

Arctostaphylos uva-ursi (L.)

Famiglia: Ericacee

Principi attivi: le foglie contengono due glucosidi, l’arbutoside e il metilarbutoside. Il tenore di glucosidi varia secondo la provenienza e la stagione della raccolta. Le altre sostanze attive sono dei tannini del gruppo catechina e dei flavoni diuretici.

Proprietà: disinfettante delle vie urinarie, ma solo se l’urina è alcalina. L’ingestione di bicarbonato di soda è raccomandata per rinforzare la sua azione in caso di coli-infezione e quando l’urina è acida.

Applicazione, Preparazione: si utilizzano le foglie lasciate macerare a freddo. In omeopatia si utilizza una tintura di foglie fresche contro la cistite, la pielite cronica, l’uretrite e la litiasi renale.

Sconosciuta agli Antichi, incomincia ad essere raccomandata a partire dal XII secolo per combattere il mal della pietra e la renella. Vista la sua presenza nel territorio del monte Vettore si potrebbe ipotizzare che siano stati proprio i chirurghi preciani a diffonderne la conoscenza.

Dal Codex Vindobonensis 93 (Erbario dello Pseudo Apuleio)

Dal Codex Vindobonensis 93 (Erbario dello Pseudo Apuleio)

 3. Piante utilizzate nelle affezioni oculari e nella cura della cataratta perché aventi proprietà oftalmiche

Eufrasia

“Quest’erba, che alcuni chiamano luminella, possiede cinque virtù.

Prima virtù: per il rossore degli occhi e l’oscuramento della vista. Occore però che sia lo stesso malato a raccoglierla e la luna deve essere calante. Dovrà poi metterla a essiccare: così, man mano che seccherà, se ne andranno i dolori e i rossori.

Seconda virtù: rischiara meravigliosamente la vista. La si deve cuocere, foglie e radici, dopo averla fatta macerare nel vino.

Terza virtù: frantumare le pietre. In questo caso somministrare un miscuglio d’enfrasia con radici giovani di gramigna ridotta in polvere.

Quarta virtù: contro le malattie cardiache. A tale scopo è utile somministrare un’uguale quantità di buglossa e d’eufrasia in olio.

Quinta virtù: contro l’epilessia e per rischiarare la vista. Prendere dell’acqua d’eufrasia distillata al capitello, un terzo di acqua di vite (cioè un’oncia) e una dracma di tuzia d’Alessandria. Mettere negli occhi una o due gocce alla volta. E se nel preparato di queste due acque si fa bollire una dracma di castoreo, si otterrà una medicina meravigliosa contro il male che fa cadere, I’epilessia, contro il quale possiede proprietà particolari.

E’ stato Aristotele ad attribuire tutte queste virtù all’eufrasia.

Il maestro Pietro di Spagna, che fu Chierico Solenne, afferma che se si mescola dell’eufrasia con finocchio, ruta, laserpizio di montagna e capelvenere, quest’acqua distillata al capitello è eccellente per conservare la vista e fa meraviglie in caso di nubocola e rossore degli occhi.”

Euphrasia

Famiglia: Scrofulariacee

Principi attivi: contiene tannino e un gluconide, l’aucuboside.

Proprietà: è un rimedio popolare per le infiammazioni oculari. L’omeopatia utilizza una tintura preparata con la pianta fresca per la congiuntivite, la blefarite, la cheratite e le altre affezioni oculari.

Finocchio

“Il finocchio è caldo e secco al secondo grado. Per la sua sostanza ha proprietà diuretiche. In medicina si utilizzano i semi, le foglie e la scorza della radice. Ma quando nelle ricette si trova “marathri”, bisogna usare i semi. Nei colliri e in altre medicine per gli occhi si deve aggiungere il succo della scorza delle radici o delle foglie dell’erba (non si mettono mai le radici, a meno che non sia precisato). Bisogna raccogliere la scorza delle radici all’inizio della primavera. La si può conservare sei mesi. Quanto ai semi, devono essere colti all’inizio dell’autunno e si conservano molto bene tre anni.

Contro l’ostruzione del fegato e della milza, contro ogni difficoltà nell’urinare, stranguria o disuria, contro le pietre provocate da umori caldi: somministrare l’acqua in cui è stata cotta la scorza della radice. Se tutte queste malattie sono causate da umori freddi, preparare questo decotto nel vino.

Cotto, crudo o applicato in impiastro, il finocchio è efficace in tutti questi casi.

… Contro pus e ferite all’occhio, esporre al sole, in un vaso di bronzo per quindici giorni, del succo di finocchio. Utilizzarlo poi come collirio. Vi si può aggiungere dell’aloe di ottima qualità e procedere nello stesso modo.”

Foeniculum vulgare, F. vulgare dolce.

Famiglia: Ombrellifere

Principi attivi: la pianta e in particolare i semi racchiudono un olio essenziale contenente 50-60% di anetolo e 20% di fencone, nonché una decina di altri componenti. I frutti contengono 10% di lio grasso.

Proprietà: stimolante, carminativo, stomachico, espettorante, diuretico, galattogeno e antispasmodico.

Applicazioni, Preparazione: si utilizzano i semi in infuso e in tintura. Le acque aromatiche di finocchio vengono ancora oggi impiegate per il trattamento di blefariti e congiuntiviti accompagnate da gonfiore delle palpebre

Ruta

“La ruta è calda e secca al secondo grado. Ci sono due specie di ruta: la ruta domestica e la ruta selvatica che viene chiamata piccolo pigamo. Foglie e semi vengono utilizzati in medicina. Ma quando nelle ricette si consiglia di prendere della ruta, si intendono le foglie: non si devono mettere i semi, a meno che non venga precisato diversamente. Ciò vale anche per la ruta selvatica o piccolo pigamo. [ semi si possono conservare cinque anni, mentre le foglie solamente uno.

… Contro gli impedimenti alla vista dovuti a fumi neri melanconici che salgono agli occhi, somministrare al paziente del vino con ruta.

… Contro … le difficoltà nell’urinare, utilizzare il vino nel quale sono stati cotti ruta e radice di finocchio.

Contro la stranguria e la disuria, cuocere la ruta in olio e vino e applicarla sul ventre.

… Per la cispa e il rossore agli occhi, mescolare polvere di ruta e polvere di cumino, metterle su pezze di cotone inumidite e applicare sotto forma di compressa. Contro le infiltrazioni di sangue negli occhi, applicare ruta e cumino mescolati.”

Ruta graveolens (L.)

Famiglia: Rutacee

Principi attivi: contiene un olio essenziale contenente una decina di sostanze (chetoni, alcoli, esteri, terpeni) di cui è importante il metilnonilchetone; contiene anche un glucoside, la rutina o rutoside, e vitamina P.

Proprietà: l’essenza di ruta è irritante; la rutina è utilizzata nella terapia dei vasi sanguigni come spasmolitico e per abbassare la pressione arteriosa.

Applicazioni, Preparazione: in omeopatia si utilizza l’essenza estratta dalla pianta fresca per fortificare gli occhi, contro i reumatismi, le nevralgie e le menorragie. Nelle medicina popolare si usa ancora in gargarismi e in infusioni come stomachico, carminativo, antispasmodico e diaforetico, emmenagogo e abortivo.

Dal Codex Vindobonensis 93 (Erbario dello Pseudo Apuleio)

Dal Codex Vindobonensis 93 (Erbario dello Pseudo Apuleio)

4. Piante con proprietà antinevralgiche e antidolorifiche

Camomila. camomilla

“La camomilla cresce in luoghi non coltivati come le pianure e, a volte, nel lino e nel frumento. Contro i dolori e le malattie degli occhi, si deve andare dove cresce la camomilla, prima che il sole si levi e recitare questa preghiera prima di coglierla: “ti prendo, o erba, per la nubecola bianca della pupilla e per il dolore agli occhi, af6nché tu mi possa prestare soccorso”. Il paziente dovrà poi portarla appesa al collo. … Quando nelle ricette si trova “camomilla”, si tratta dei fiori. Se non si ha della camomilla fresca, si può usare l’essiccata. Contro stranguria e disuria e per frantumare i calcoli, bere spesso dei decotti di camomilla in acqua o vino. Procurerà un sollievo immediato. Contro la febbre quotidiana: ungere il malato con olio di camomilla. Ne sarà riscaldato e la febbre diminuirà. Contro il gonfiore delle palpebre: la camomilla masticata e applicata come impiastro è molto efficace. … Questa pianta, cotta nell’olio, pestata e applicata sulle piaghe, ne dividerà gli umori se non sono troppo compatti.”

Matricaria chamomilla

Famiglia: composite; altri membri della famiglia sono la pratolina, il tarassaco e la calendula.

Principi attivi: l’essenza blu scuro dei fiori contiene camazulene, attivo come antiflogistico e antiallergico, oltre a bisabololo e farnesene. Nei fiori si trovano gli eterosidi flavonici, palustrina, quercetolo e apigenina. L’azione spasmolitica è dovuta a un etere diciclico.

Proprietà: carminativo, stomachico, antispasmodico, velnerario, antiflogistico, antiallergico.

Applicazioni, Preparazione: sindromi febbrili, soprattutto per le febbri periodiche della malaria (Egizi). Dioscoride e Plinio la raccomandavano nel trattamento della cefalea e dei disturbi renali, epatici e vescicali. Veniva impiegata in area tedesca anche per curare i disordini digestivi, favorire le mestruazioni e alleviare i crampi mestruali. E’ rimedio digestivo grazie alla presenza di bisabolo che ha funzione rilassante sul tessuto muscolare liscio dell’apparato digestivo (proprietà antispasmodica), ha funzioni tranquillanti, ha funzione lenitiva nelle infiammazioni articolari artritiche, previene le infezioni (l’olio riduce i tempi di cicatrizzazione, ma l’erba distrugge anche i lieviti che causano le infezioni vaginali e alcuni batteri; inibisce la replicazione del virus della poliomelite), stimola i globuli bianchi del sistema immunitario.

 Papavero

“Il papavero è freddo e secco. Esistono tre tipi di papavero: quello bianco, freddo e umido; quello nero, freddo e secco e quello rosso, cioè col fiore rosso, che è il più soporifero. È denominato papavero selvatico o papavero dei campi. Il seme del papavero può essere conservato dieci anni. Nelle ricette tra i cui ingredienti figura il papavero, viene specificato se si tratta di quello nero o rosso. In caso contrario, si tratta sempre di quello bianco.

Per far dormire il malato, applicare sulle tempie un impiastro di papavero con latte di donna e un bianco d’uovo. Le donne di Salerno danno ai loro bambini, per farli dormire, dei semi di papavero bianco con il proprio latte. Il papavero nero e quello rosso non devono essere somministrati in quanto troppo freddi.

… Il fiore del papavero selvatico pulisce le macchie e i tumori degli occhi. Per i podagrosi preparare un impiastro di papavero selvatico con del latte.”

Papaver  rhoeas o rosolaccio

Famiglia: Papaveracee

Principi attivi: la linfa contiene quattro alcaloidi (nel papaver somniferum ne troviamo oiù di 25): la readina, la reagenina, la rearubina I e II. Il fiore è ricco di mucillagine e contiene antociani (cianidolo).

Proprietà: calmante, emolliente.

Applicazione, Preparazione: un tempo veniva usato come anestetico (nella variante somniferum o papavero bianco), mentre al rosalaccio si attribuiva, oltre al potere lenitivo, la proprietà di pulire “le macchie e i tumori dell’occhio”.

Valeriana

“La valeriana è calda e secca al secondo grado. Bisogna coglierne la radice e farla essiccare al sole. La si può conservare perfettamente tre anni. Infatti, è la radice che si utilizza nelle medicine. Bisogna sceglierla intatta, senza buchi e che non si riduca in polvere quando la si spezza. Ha proprietà diuretiche.

Contro la stranguria e la disuria, somministrare del vino in cui è stata cotta della valeriana con semi di finocchio o mastice. Insieme a questo vino, somministrare il succo di un’altra erba diuretica.”

Valeriana officinalis (L.)

Famiglia: Valerianacee

Principi attivi: la radice e il rizoma racchiudono un olio essenziale contenente 1% di un composto polimerico di acidi valerianici e di monoterpeni chiamato triestere epossivalerianico. Questo si decompone, in presenza dell’enzima ossidasi, in acido valerianico e metilchetone: il primo ad azione soporifica e antispasmodica, il secondo lievemente anestetizzante.

Proprietà: calmante nervoso, antispasmodico, stomachico.

Applicazioni, Preparazione: più che le estrazioni acquose (più efficaci) si utilizza la radice sotto forma di tintura come sedativo e calmante nervoso, nelle affezione nervose, isterismo, nevrastenia, emicranie e nei disturbi digestivi. I medici salernitani la consigliavano anche come diuretico.

Le corrispondenze sopra viste mostrano senza ombra di dubbio l’uso mirato e appropriato di ogni specie da parte dei preciani, aiutati in questo da una perfetta conoscenza delle risorse terapeutiche offerte dal territorio, ma soprattutto sono rivelatrici della loro particolare sensibilità per il paziente, che veniva seguito prima dell’intervento (sia nel tentativo di allontanare l’operazione, sia per porlo nelle migliori condizioni, disinfiammando, deostruendo e purificando) e dopo, con terapie mirate ad alleviarne le sofferenze e a favorire la ripresa.

E’ possibile che ancora una volta il supporto dotto di tale attenzione sia da ricercare nei dettami dei medici salernitani, magari filtrati e supportati dal sapere monastico, fortemente propensi alla prevenzione attraverso la dieta, l’igiene e il trattamento fitoterapico delle malattie, ma è del pari probabile che giochi in questo, come naturale retroterra culturale (ed è un’arma sicuramente vincente rispetto ad altri colleghi o praticoni poco propensi a considerare le condizioni di salute, l’età e la soglia di sopportazione dei potenziali pazienti), il buon senso della medicina delle donne, di certo molto più attenta (non fosse altro che per la propria esperienza in corpore) ad evitare interventi invasivi e a lenire i dolori.

Depositarie dei segreti della nascita e della morte (la levatrice aiuta il bambino ad entrare nella vita così come lava e prepara il corpo del morto per il suo viaggio ultraterreno, tanto che nel Medioevo il termine exitus indica sia il momento della nascita sia quello del trapasso), le donne avevano un rapporto più immediato con il corpo e con la natura; istintivamente rifiutavano l’idea della malattia e della sofferenza ad essa connessa come punizioni di colpe remote e per questo agivano, cercando nella natura i rimedi che fanno rifiorire la vita o che almeno cancellano il dolore. Consolatrici e guaritrici, queste inconsapevoli maestre ed eredi delle badesse-medico renane e delle magistre salernitane furono osteggiate se non perseguitate dal sapere medico maschile ufficiale, così reticente a piegarsi compassionevole sul corpo del malato.

Ai preciani e ai loro colleghi practici, al di là della loro importanza storica di “scuola”, vada almeno il merito di aver osservato e di aver fatti propri i saperi delle loro compagne.


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