Dal sublime al ridicolo: fisiognomica e caricatura

di Oscar Meo

La caricatura è una delle forme del comico. Potremmo chiamarla “comico di figura”, per differenziarla dal “comico di discorso”, ossia dal comico come genere artistico verbale[1]. Essa consiste in un ritratto, ma deformato: è una rappresentazione dell’esterno di un individuo reale o stereotipico, che ne sottolinea i particolari somatici più curiosi e caratteristici e ne fa emergere gli aspetti meno nobili, quelli che contribuiscono ad abbassarlo dal punto di vista sociale, etico, psicologico[2].

La storia della caricatura vera e propria è relativamente breve: le forme più antiche riconosciute come tali risalgono al periodo compreso fra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, anche se vi sono testimonianze indirette della sua presenza nell’antichità classica[3]. Si potrebbe essere tentati di definire “caricature” anche alcune maschere primitive che si allontanano dai canoni di bellezza propri dell’estetica classica. Non si tratta però, in generale, di opere nate come vere e proprie caricature, ma funzionali ad altri scopi (di carattere cultuale, apotropaico, ecc.). È vero inoltre, come sottolineano tutti gli studiosi e come emerge dall’embrionale definizione che ne ho dato, che la caricatura – in quanto forma del comico – porta sempre con sé una carica negativa, che può giungere fino alla denigrazione e ledere pertanto la dignità dell’individuo raffigurato. Tuttavia, come rileva Ernst Kris, non si possono considerare caricature i disegni puramente aggressivi e offensivi dai quali siano assenti tratti artistici[4].

Caricature ante litteram possono essere considerati alcuni volti grotteschi medievali e rinascimentali, fra i quali spiccano certe teste di Leonardo, considerato a ragione uno dei padri nobili di quest’arte sui generis, e i personaggi che animano le opere di Bosch e Bruegel, nella cui denuncia morale della verkehrte Welt, di quel “mondo rovesciato” che è da sempre tema dominante del comico (sia come suo oggetto sia come strumento di rappresentazione), sono evidenti la deformazione dei tratti, la presenza di marcati difetti fisici, atteggiamenti curiosi e insoliti, nonché quell’incongruenza e quel contrasto fra caratteristiche opposte che – come è noto – costituiscono elementi caratteristici della peculiare logica del comico[5].

La nascita per così dire ufficiale della caricatura avviene a Bologna, nella bottega dei Carracci[6]. Nel suo resoconto aneddotico, Giovanni Battista Agucchi[7] riferisce che “ritrattini carichi” vi venivano definiti i sapidi schizzi nei quali Annibale Carracci eccelleva. In contrasto con la teoria tradizionale del bello, egli sosteneva che disegnare una caricatura significa assecondare la natura nella sua deformità fino a realizzare la “perfetta deformità” o anche la “bellezza della deformità”, ossia il perfetto rovesciamento del bello ideale di ascendenza platonica. Riecheggia in questa importante posizione teorica la definizione aristotelica del comico (o meglio: del ridicolo) come la rappresentazione di quella deviazione e di quel brutto che tuttavia non recano dolore e danno[8]. Conformemente all’etimo del termine “caricatura”[9], il suo autore, mirando – da vero e proprio Raffaello rovesciato – al brutto ideale, non fa altro che accentuare, esagerare, sovrappesare difetti già presenti nel soggetto raffigurato allo scopo di suscitare il riso nell’osservatore. E questo, sia detto per inciso, ha sempre offerto una buona giustificazione a chi non considera la caricatura come una forma d’arte: essa si prenderebbe gioco dei valori seri della vita, degraderebbe l’individuo, lo abbasserebbe imbruttendolo. Ma, come ho già rilevato, uno dei predicati definienti del comico è proprio l’abbassamento, rispetto a se stessi, di colui o di ciò di cui si ride. E questo era per l’appunto l’obiettivo di Annibale Carracci: realizzare il comico nella sua perfezione, mostrare che anche il conseguimento del brutto (concepito come contrario “positivo” del bello) è fine dell’arte. Deformando i tratti di un individuo, la caricatura si prende gioco delle sue abitudini, dei suoi atteggiamenti, dei suoi vezzi, dei suoi costumi. In questo senso, essa può assumere il carattere di una vera e propria sanzione sociale e morale, giusto il celeberrimo motto latino che definisce il fine essenziale del riso e della derisione: castigat ridendo mores. E d’altro canto, se proprio non vogliamo ripetere con Aristotele che la commedia mette in scena uomini “peggiori di noi” (per un difetto che può essere fisico o psico-morale)[10], dobbiamo almeno ammettere che “burlarsi di qualcuno” lo rende più simile a noi, lo fa scendere al nostro livello,  se, per qualche caratteristica socio-culturale o dote particolare, si colloca nella vita reale al di sopra di noi[11]. In questo caso, abbiamo a che fare con una forma di caricatura riconducibile al sottogenere del comico denominato “humour”. Essa consente di guardare ai difetti altrui quasi con benevolenza e indulgenza, senza l’intenzione critica e fustigatrice propria dell’ironia e, ancor più, della satira, che spesso sconfinano nel grottesco[12]. Rinunciando a giudicare il grado di deviazione del proprio bersaglio rispetto a una “norma”, la caricatura umoristica permette che lo spettatore, sorridendo del rappresentato, sorrida in realtà anche di se stesso, del proprio mondo, come se vedesse allo specchio le sue stesse imperfezioni. È questo un tratto tipico di molte caricature contemporanee, ma anche di alcune caricature delle origini.

Vi è sempre, al fondo della caricatura, un certo atteggiamento scettico, assai diverso però da quello del misantropo: uno scetticismo che, come la trovata comica in generale, guarda dall’alto le follie del mondo e che proprio per questo non ha necessariamente come proprio fine il disprezzo e la pesante sanzione etico-sociale. Si tratta di uno strumento per mettere in luce la fragilità dell’uomo, le sue piccole manie, i lati negativi della sua personalità, senza alcuna pretesa di contribuire alla sua educazione morale. Come diceva lo stoico Seneca a proposito di Democrito, ritenuto folle perché fortemente incline al riso, “humanius est deridere vitam quam deplorare”[13]. Rendendo imperfetto il ritratto, la caricatura toglie qualcosa all’individuo raffigurato, ma al tempo stesso ne svela qualcosa, aggiunge un tocco di sapidità psicologica. E lo fa manipolando il suo aspetto fisico: levando di qui, aggiungendo di là, ci dà per così dire il rovescio dell’immagine con cui di solito egli si presenta, mira a svelare la fodera della sua personalità, pur nella deformazione (anzi: proprio grazie ad essa).

Secondo il già menzionato Agucchi, la caricatura nasce, per così dire, sotto il segno della fisiognomica:

“& Annibale istesso, che ne fù il principale Autore, e Maestro, ne hà fatto [sc.: di “ritrattini carichi”] in grandissimo numero… E massimamente di quelli, che furon da lui fatti in riguardo di quel che dicono i Fisionomisti, de’ costumi di quelle persone, che alcuna somiglianza hanno in alcuna parte co’ gli animali irragionauoli: poiche egli disegnò solamente ò vn Cane, ò vn Bue, ò altro animale; e nondimeno benissimo si comprendeua essere il ritratto di colui, i cui costumi, e l’effigie haueua voluto l’artefice rappresentare”[14].

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Fig. 1

Già ai suoi inizi la caricatura piega dunque alle proprie finalità uno strumento di indagine che la fisiognomica adotta fin dai tempi antichi: la comparazione fra l’uomo e l’animale[15]. Vi è una straordinaria convergenza fra le metamorfosi di Annibale Carracci e gli studi del suo contemporaneo Giambattista Della Porta sulle somiglianze fra la conformazione del viso di alcuni uomini e i tratti degli animali. Fra le illustrazioni che Della Porta utilizza a titolo esemplificativo troviamo, con un trattamento iperbolico delle somiglianze, l’uomo-leone, l’uomo-bue, l’uomo-pecora [Fig. 1]. Ma accanto a rappresentazioni come queste, prive di individualizzazione e palesemente costruite allo scopo di corroborare un’ipotesi teorica, compaiono anche ritratti “ritoccati” di personaggi storici, e dunque di individualità definite: un Galba-aquila, un Socrate-cervo, un Poliziano-rinoceronte [Fig. 2]. Per conferire fondamento scientifico alle sue teorie, Della Porta si fonda sulla lunga tradizione degli studi fisiognomici, che trovano riscontro anche nel corpus aristotelico: non soltanto nella Historia animalium, ma anche negli apocrifi Physiognomonica e, soprattutto, nella teoria del sillogismo, che Aristotele considera come l’unico procedimento atto a conferire dignità scientifica alla fisiognomica, sottraendola alla sfera delle credenze magiche. Secondo quanto egli stesso afferma nell’ultima sezione dell’ultimo capitolo degli Analytica priora, dedicato agli entimemi (ossia ai sillogismi basati sui segni)[16], è possibile physiognōmonein (che significa: giudicare la natura di un oggetto sulla base della sua struttura corporea) una volta ammesso il principio che i pathē (le affezioni o emozioni) naturali “trasformano insieme il corpo e l’anima” [17]. A ogni pathos viene associato per corrispondenza biunivoca un segno corporeo[18]. Per es., presupposto che i leoni siano coraggiosi, è necessario che di ciò esista un segno o indizio corporeo. Questo indizio sono le grandi estremità. Non è difficile proseguire il ragionamento inferendo per analogia dalla presenza di questo segno fisico quella dello stesso tratto caratteriale, cioè del coraggio, anche in membri di classi diverse da quella dei leoni: uomini o altri animali. Da parte sua, Della Porta estende il criterio aristotelico alla somiglianza generale dei tratti: l’uomo che assomiglia al leone ne possiede le doti psicologico-morali più significative, anche se non tutte[19].

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Fig. 2

Il metodo di Della Porta, che inserisce la soluzione aristotelica in una più generale concezione unitaria e armonica dell’universo, fondata sul concetto di corrispondenza (o meglio: di simpatia) fra tutte le cose, ebbe successo in ambito artistico, e non soltanto a fini caricaturali. Lo mostrano, per es., i lavori di Rubens miranti a mettere in evidenza nei tratti umani la corrispondenza con l’animale più vicino per carattere: Ercole sarà raffigurato come un uomo leonino e Cesare come un uomo cavallino (e viceversa: un uomo leonino assomiglierà a Ercole e uno cavallino a Cesare)[20].

Ora, è assai agevole passare dall’attribuzione a un uomo dei pathē positivi posseduti dall’animale cui somiglia all’attribuzione di quelli negativi: la costruzione di una figura umana simile a una animale suggerirà, in virtù della corrispondenza fra i segni esterni, la presenza degli stessi difetti interni. È il principio della ritrattistica caricaturale, il cui legame con la soggettività (e con i suoi indizi corporei) ne rivela il carattere di fenomeno peculiarmente moderno.

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Fig. 3

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Fig. 4

A determinare la fortuna del neonato genere artistico fu Gian Lorenzo Bernini, al quale si deve l’esportazione in Francia (e di qui in tutta Europa) del termine “caricatura”. In lui, con una decisa svolta verso l’assurdo (che è notoriamente un predicato logico definiente del comico)[21], la deformazione presenta talvolta il suo bersaglio sotto una forma inverosimile, strampalata, e tuttavia tale da fargli conservare l’analogia con l’originale. Bernini interpreta in modo caratteristico il principio fondamentale della caricatura, cui ho testé accennato e che – ricorrendo a una bella immagine verbale di Jakobson – potremmo chiamare “il principio dell’equivalenza nella differenza”: mantenere la somiglianza in modo da catturare la personalità dell’individuo pur nella deformazione della figura o nel suo stravolgimento, allorché il caricaturista trasforma l’essere umano in animale, o addirittura in vegetale o in oggetto inanimato. Proprio nella cerchia berniniana si diffuse l’idea che il fine della caricatura è scoprire la somiglianza nella deformità, ossia – come nella metafora – vedere il simile nel dissimile[22]. La riconoscibilità, che permane nonostante la deformazione, giacché, anche qualora vi sia animalizzazione, il volto conserva pur tuttavia le sembianze umane e i rapporti topologici fra i suoi elementi,  fa sì che – come sottolinea Gombrich[23] – il soggetto ritratto non possa più liberarsi dell’impressione suscitata dalla sua caricatura: essa lo accompagnerà come un marchio e giocherà un ruolo determinante nella costruzione della sua figura pubblica. La bravura del caricaturista, sembra suggerirci Bernini, consiste anche nel rendere con pochi tratti, con il minimo dispendio di mezzi, l’essenziale del soggetto raffigurato. Nel disegnare i volti, Bernini si limita a una grammatica pittorica davvero essenziale, spesso quasi naïf o infantile, ma la semplicità e la linearità dei tratti hanno la stessa forza di impatto e lo stesso carattere fulmineo della battuta di spirito. Per usare un’immagine di Ernst Kris: una caricatura è un colpo di cannone[24]. Un esempio di questa dote berniniana è costituito dalla caricatura del cardinale Scipione Borghese: bastano poche linee tracciate con la penna per cogliere quanto il soggetto sia bolso, ma sia anche uno spirito gaudente e giovialmente astuto [Fig. 3]. La caricatura costituisce la versione per così dire “familiare” e “privata”, quasi un bozzetto, del busto “serio” e ufficiale del cardinale che lo stesso Bernini scolpì  [Fig. 4].

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Fig. 5

Con il passare del tempo, e con l’affinarsi della tecnica compositiva, apparve sempre più evidente che la caricatura sfruttava abilmente l’assunto di fondo della fisiognomica allo scopo di raggiungere il proprio effetto comico, fosse quest’ultimo a inclinazione benevolmente umoristica, oppure beffardamente ironica. Fu questa autoconsapevolezza, unita alla consapevolezza della precarietà delle basi scientifiche della fisiognomica, a spingere uno dei più interessanti caricaturisti francesi dell’Ottocento, Grandville[25], a ridicolizzare il climax fisiognomico evolutivo che – secondo l’ipotesi di Lavater – conduce dalla rana ad Apollo mediante la semplice inversione dell’ordine delle figure, che dà luogo a una scala discendente. Il risultato è l’opera intitolata Apollo scende verso la rana (1844), che è una vera e propria rappresentazione simbolica della verkehrte Welt [Fig. 5]. Riscontriamo nuovamente, come carattere definiente del comico, l’insistenza sul degradante e sul degradato, sugli aspetti meno nobili dell’esistenza, che costituisce un tratto comune fra il clima culturale in cui nacque la caricatura e quello postclassicista: anche nell’Ottocento l’“elogio del brutto” e la realizzazione della “perfetta deformità” sono resi possibili dall’abbandono (questa volta definitivo) della teoria classica del bello. In questo specifico lavoro l’intento ironico è poi rafforzato dal fatto che Grandville mostra di conoscere bene anche i serissimi studi di Camper, che si fondava a sua volta su quelli compiuti con rigore cartesiano da Le Brun, sul rapporto fra la bellezza e la posizione di un essere umano o animale nella scala evolutiva da un lato e l’inclinazione dell’angolo facciale dall’altro. In tal modo, riproducendo le variazioni fisiognomiche secondo un metodo rigorosamente geometrico, Camper poteva collocare il negro in una posizione più vicina a quella della scimmia con la coda (grado iniziale) che a quella di Apollo, del quale riusciva a disegnare addirittura la struttura del cranio [Fig. 6].

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Fig.6

Nella ferinizzazione dell’umanità si esercitò anche il più noto dei caricaturisti francesi dell’Ottocento, Honoré Daumier, che – come mostra l’immagine riprodotta [Fig. 7][26] – soltanto un  passo separa dall’espressionismo radicale di un Grosz, con la sua feroce critica sociale [Fig. 8][27]. In generale, vi è comunque da osservare che l’espressionismo riprese più di uno spunto non solo dai caricaturisti ottocenteschi, ma anche da artisti come Goya e Füssli, che, attratti dal fantastico e dal perturbante[28], si erano rifatti esplicitamente alle teorie fisiognomiche, ed erano fortemente interessati a quella vera e propria “semiotica delle passioni” che costituisce l’obiettivo della classificazione sistematica delle espressioni del volto umano e delle sottostanti emozioni in Le Brun. Ma in Daumier vi è pure un’applicazione sui generis della complessa costruzione cartesiana dei disegni di Le Brun, che suona anche come critica indiretta alla dedizione di Lavater alla causa della fisiognomica. Ce lo mostra un’opera del 1852 dal titolo L’orchestra mentre si rappresenta una tragedia [Fig. 9], in cui il taglio fotografico della scena sembra anticipare certe rappresentazioni di spettacoli in Degas e in Toulouse-Lautrec (che fu egli stesso sapido caricaturista, attratto dal deforme e dal grottesco). Mentre gli attori assumono una posa statuaria e fanno gesti nobili, solenni, pieni di pathos, che lasciano indovinare espressioni del volto altrettanto ispirate (di quelle, per intenderci,  che riempivano di entusiasmo e commuovevano nel profondo Lavater), sotto il palcoscenico la maggior parte degli orchestrali dorme e uno di loro esibisce sfrontatamente uno sbadiglio dall’allure preespressionista. In questo modo Daumier sottolinea la differenza fra la realtà del quotidiano (collocata in basso in una scena ripresa dal basso, perché bassa e umile, ma assai definita nel disegno) e l’atmosfera sublime della finzione teatrale (aulica, ma meno definita e tanto elevata, da essere sottratta per buona parte alla vista). Ancora una volta emergono, come elementi tipici della trasformazione comica, il contrasto (qui: fra arte e vita, fra nobile e plebeo) e l’interesse per gli aspetti deteriori della realtà. Non c’è alto e patetico sentire che possa smuovere l’orizzonte limitato del gruppo di orchestrali, i quali stanno semplicemente approfittando di una pausa di lavoro. In altri termini, non è possibile una trasfigurazione nobilitante del banale, e dal sublime al ridicolo non v’è che un passo: quello che separa l’illusione dalla quotidianità.

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Fig. 7

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Fig. 8

Fu Baudelaire, da attento analista dei fenomeni sociali e culturali, a sottolineare la potenza inquietante, quasi diabolica della caricatura. A proposito di un giornale satirico assai famoso e attivo nell’epoca di Luigi Filippo d’Orleans, “La caricature”, così si esprimeva:

“È un bailamme, un cafarnao, una prodigiosa commedia satanica, ora burlesca, ora sanguinante, in costumi vari e grotteschi, tutte le glorie politiche”[29].

E di Daumier, per il quale aveva un’ammirazione incondizionata, scriveva:

“tutte le miserie dello spirito, tutte le debolezze comiche, tutte le manie dell’intelligenza, tutti i vizi del cuore si leggono e traspaiono chiaramente su questi volti animalizzati [sc.: i volti dei politici dell’epoca di Luigi Filippo]”[30].

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Fig. 9

Se Daumier si esercita soprattutto nel cogliere l’aspetto ferino, quasi teratomorfo, dell’umanità, le sue debolezze, le sue cadute, il suo mentore Charles Philipon si spinge ancora oltre, ma con una linea più leggera e un’intentio ironica forse ancora più sottile, nella degradazione della figura umana, giungendo a usare come termine di confronto il mondo vegetale. Così, nella sua caricatura più nota, la testa di Luigi Filippo si trasforma, seguendo un climax discendente analogo a quello evocato da Grandville, in una pera [Fig. 10]. La ferocia dell’allusione (poire in francese ha il significato traslato di “zuccone”) è aggravata dalle didascalie aggiunte da Philipon per giustificare la propria audacia, che era costata una grossa ammenda a “Le Charivari”, il giornale satirico sul quale la vignetta era stata pubblicata. Nel prosciugamento progressivo dei tratti che caratterizza il continuum sequenziale dalla prima all’ultima figura, e che ricorda l’estrema semplificazione delle caricature seicentesche (ma anche certe soluzioni fumettistiche), si può riconoscere facilmente il principio dell’equivalenza nella differenza: come lo stesso Philipon ripete quasi ossessivamente nell’autodifesa affidata alle didascalie, non si può negare che vi sia somiglianza (pur nella differenza) fra le figure contigue[31]. Da un punto di vista semiotico-retorico, potremmo dire che Philipon utilizza qui entrambe i tropi fondamentali: la metonimia nella sostituzione per contiguità e la metafora nell’enucleazione del simile nel dissimile[32]. Ed è assai difficile sottrarsi all’impressione che uno dei maggiori caricaturisti italiani contemporanei, Giorgio Forattini, si ricolleasse intenzionalmente proprio all’esperimento visivo di Philipon quando, dando vita – mediante l’inserimento delle iscrizioni – a un gioco verbale fondato sull’omonimia e chiamando pertanto in causa simbolicamente (secondo il procedimento del rimando in absentia) il Presidente del Senato dell’epoca, trasformava in pera che cade dal ramo la testa dell’allora potente Governatore della Banca d’Italia, che aveva ironicamente e incautamente formulato per l’appunto la domanda che compare nella caricatura [Fig. 11][33].

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Fig. 10

In questi due ultimi casi gli autori giocano sull’ambiguità percettiva, su quella che, parafrasando Agostino, potremmo chiamare una duplex figuratio: il soggetto diventa altro rispetto a ciò che è, pur rimanendo ciò che è. Dal punto di vista logico, vi sono alcune somiglianze con quanto accade nelle figure ambigue rese celebri dai manuali di psicologia della percezione: si ha al tempo stesso conservazione e violazione del principio di contraddizione, e proprio questa ambiguità semantica di fondo contribuisce all’esito comico. Vi è però una fondamentale differenza: mentre le figure ambigue costituiscono uno strano monstrum percettivo, in cui convivono due figure, ma se ne può vedere soltanto una per volta, nelle caricature qui discusse l’osservatore non perde mai di vista né il nuovo contorno del volto del raffigurato né le sue sembianze originarie[34]. Inoltre Philipon può far compiere la trasformazione in pera al suo bersaglio caricaturale perché fin dall’inizio lo vede come una pera[35]. La pointe comica scaturisce dalla capacità dell’artista di percepire un’ambiguità semantica e ontologica originaria, da un “vedere-come” che si traduce in un “rappresentare-come” a forte valenza connotativa[36]. Forse questo aiuta a spiegare retrospettivamente le ragioni dell’apparenza un po’ buffa delle figure umane di Della Porta: dal suo “vedere-come” e dalla conseguente forzatura dell’aspetto delle figure scaturisce una sorta di umorismo involontario, allo stesso modo in cui involontariamente umoristiche risultano le ispirate ed immaginifiche descrizioni che – con una palese tendenza a reperire ovunque il sublime – Lavater fa del carattere dei suoi soggetti, animato come è dalla certezza inconcussa (e tragicamente tradita) che sia possibile vedere l’anima nel volto. In tal modo Lavater rinnovava un equivoco di fondo della fisiognomica, che il suo avversario Lichtenberg non mancò di sfruttare ai propri fini, a volte facendo ricorso all’arma dell’ironia[37]: la fallacia consiste nello scambiare espressioni momentanee di emozioni mutevoli per indizi immutabili di tratti permanenti del carattere.

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Fig. 11

Fra i lavori di Forattini, quello di Fig. 11 non è il solo a mostrare quanto la fisiognomica continui ancor oggi a esercitare il suo influsso sull’arte della caricatura in generale. Più evidente ancora è il retaggio fisiognomico presente in altre sue operazioni di metamorfosi comica, filtrate attraverso la lezione del fumetto. Quando, selezionando in modo penetrante comportamenti, ubbie, atteggiamenti o traducendo rappresentazioni dell’immaginario collettivo, ricorre alla paronomasia (e dunque all’asse della contiguità) e trasforma Ciampi nel cagnone Ciappi, o disegna gli ibridi Amato-topo e Veltroni-invertebrato [Fig. 12][38], Forattini riprende l’idea di fondo che la caricatura condivide con la fisiognomica: cogliere nell’esterno l’immagine dell’interno, catturare in modo fulmineo l’essenza di una personalità[39].

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Fig. 12

Assumendo, come l’umorismo, un atteggiamento di distacco nei confronti del mondo, la caricatura intende insinuare il dubbio che sia davvero la razionalità a guidare le scelte individuali. Il mondo, come sempre nel comico, le si squaderna innanzi come una verkehrte Welt. Di qui l’incontro felice con la fisiognomica, interpretata in chiave di reductio ad absurdum dei comportamenti umani, una volta che siano riportati sul piano dell’animalità o addirittura dell’esistenza vegetale. Anzi, alcuni caricaturisti si sono spinti molto più in basso nel cercare corrispondenze con la sfera subantropica, giungendo fino alla reificazione dell’essere umano. Come esempio valga un’elegantissima realizzazione di Grandville il cui titolo è di evidente ispirazione fisiognomica: Silhouettes, del 1830 [Fig. 13]. L’opera è formalmente assai notevole: la linea è sinuosa ed elaborata, garbata, mai aggressiva, mai “gridata” e volgare, mai grassa e pesante, contrariamente a quanto si riscontra nella maggior parte dei caricaturisti a lui contemporanei. Si tratta di una linea che oserei definire, prendendo a prestito una definizione coniata per il rigore formale della linea di Klee, “allusiva”, come si addice del resto ad ogni vero segno: qui come altrove, il fondo presimbolista dell’arte di Grandville gli impedisce di strappare brutalmente veli, mettere impietosamente a nudo, anche se evidente obiettivo polemico dell’opera è il sussiego dei detentori del potere. Con una decisa virata verso il fantastico, e con una certa inclinazione al noir che manifesta la sua personale inquietudine psicologica, Grandville sfrutta l’inganno percettivo prodotto dalle ombre, trasformando la silhouette di figure che sono già caricaturali in oggetti inanimati che scorrono, come in un gioco perturbante di lanterna magica, lungo un muro[40]. Con la sua metamorfosi Grandville ridicolizza non soltanto i potenti, ma anche il metodo pseudoscientifico di Lavater, che privilegiava la silhouette come oggetto di studio, perché – sosteneva, ponendosi perfettamente in linea con la posizione classicista e con la moda grafica del suo tempo – essa consente all’esperto di fisiognomica di concentrarsi sul puro profilo, sui puri lineamenti del volto umano, senza lasciarsi distrarre dal chiaroscuro, dai colori e dall’espressione momentanea della figura reale[41]. Al tempo stesso, Grandville offre un commento ironico all’antica leggenda della nascita della pittura dal contorno dell’ombra di una figura umana proiettata su un muro. La silhouette, suggerisce Grandville, è ambigua, come l’ombra, e deforma le figure fino a renderle irriconoscibili e angoscianti: per parafrasare un altro importante conoscitore della fisiognomica e caricaturista egli stesso, il turbamento della ragione genera mostri. Ma, ed ecco il rovesciamento (più grottesco che comico), potrebbe anche darsi che la trasformazione dell’ombra in inquietante silhouette (un espediente significativamente presente anche in Forattini, a ulteriore testimonianza dell’onda lunga della fisiognomica) riveli il lato oscuro dei personaggi rappresentati, che ne estragga l’altrettanto inquietante succo. Grandville non denuncia dunque apertamente, ma rimanda indirettamente a qualcosa che sta al di là dell’apparenza, al nocciolo segreto e perturbante della personalità.

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Fig. 13

In conclusione, da questo breve, e largamente incompleto, excursus emergono le diverse possibilità di interpretazione dell’“uomo interiore” dischiuse dal contatto della caricatura con la fisiognomica, così come esso è storicamente documentabile. Sono molte le opzioni ermeneutiche e operative consentite dalla teoria fisiognomica: quelle messe in atto nell’ambito della produzione artistica (da Rubens fino alle videoinstallazioni di Bill Viola, passando per Hogarth, Goya, Füssli, Géricault, van Gogh, il Balla divisionista e l’espressionismo)[42], quelle criminologiche e psichiatriche, quelle degenerate in infauste teorie della razza. La rappresentazione caricaturale potrebbe essere considerata non solo la più frivola e plebea, ma anche la più caduca, giacché essa, come il comico in generale, può fare male, molto male al suo diretto bersaglio, ma è sempre strettamente legata a un contesto situazionale storico determinato, così che si potrebbe anche non essere disposti a riconoscerle uno statuto universale. Tuttavia sarà bene ricordare che da sempre, sia pure in modi diversi e ricorrendo a strumenti diversi, gli uomini ridono, deridono e, come li induce a fare la caricatura più raffinata ed elegante (quella a declinazione umoristica), sanno sorridere delle imperfezioni della propria natura. E questo basta a giustificare il successo del “comico di figura” fin dal suo primo apparire.


Note

[1] Al sintagma “comico di discorso” attribuisco dunque un campo semantico più ristretto rispetto a quello che L. Olbrechts-Tyteca (Il comico del discorso. Un contributo alla teoria generale del comico e del riso, trad. it., Feltrinelli, Milano 1977) chiama comique du discours, ossia il comico verbale in generale. Per altro, la stessa Olbrechts-Tyteca (ibid., pp. 12-13) osserva che molto spesso il comico scaturisce dal tutto solidale costituito da figura e iscrizione (interna o esterna all’immagine), come per es. nelle vignette umoristiche e in molte caricature.

[2] È opportuno ricordare che soltanto per estensione metaforica si definiscono “caricature” personaggi letterari, cinematografici, teatrali:  si tratta di rappresentazioni di individui che, intenzionalmente o per insufficiente vis artistica dell’autore e/o dell’interprete, hanno tratti somatici e/o caratteriali esagerati, deformati, ridicolizzati.

[3] Come ricorda Lessing (Laocoonte, trad. it., Rizzoli, Milano 1994, p. 52), la legislazione tebana prevedeva apposite sanzioni per gli autori di rappresentazioni deformi che noi chiameremmo “caricaturali”.

[4] Cfr. E. Kris, I principî della caricatura, in Ricerche psicoanalitiche sull’arte, trad. it., Einaudi 1988, pp. 188-189. L’esempio di Kris è il celebre crocifisso con la testa d’asino presente su un muro di Pompei e accompagnato, come del resto lo sono molte vere caricature, da un’iscrizione a mo’ di didascalia esplicativa o commento metafigurativo: “Alexamenos adora dio”. Questo prodotto della propaganda anticristiana ricorda sicuramente l’uso politico della caricatura e uno dei suoi procedimenti tipici (la trasformazione del bersaglio in animale). Oltre all’intentio artistica, manca però nel graffito un altro carattere tipico della caricatura: il gioco metaforico che consente di passare dall’una all’altra figura. L’ibrido pompeiano nasce per pura e semplice giustapposizione di elementi diversi, secondo un procedimento compositivo assai diffuso nelle mitologie dei popoli pagani e nelle loro celebrazioni religiose.

[5] Sia qui sufficiente menzionare La nave dei folli di Bosch e la Battaglia fra Carnevale e Quaresima di Bruegel.

[6] Succinte, ma fondamentali, informazioni sulla storia della caricatura sono reperibili in W. Hofmann, Die Karikatur von Leonardo bis Picasso, Rosenbaum, Wien 1956. Cfr. pure A. Brilli, Dalla satira alla caricatura: Storia, tecniche e ideologie della rappresentazione, Dedalo, Bari 1985.

[7] Il Trattato della pittura di G.B. Agucchi fu pubblicato a Roma nel 1646 nella raccolta Diverse figure di Annibale Carracci ad opera di Giovanni At[t]anasio Mosini (pseudonimo di Giovanni Antonio Massani). Ne è comparsa recentemente una riedizione in appendice a E. Di Stefano, Bello e Idea nell’estetica del Seicento, “Aesthetica preprint”, n. 79, Aprile 2007, pp. 61-78 [disponibile in versione elettronica al sito Internet: http://www.unipa.it/~estetica/download/DiStefano_BeI.pdf%5D.

[8] Cfr. Aristotele, Poetica, 1449 a 34-37.

[9] Per quanto se ne sa, il termine compare per la prima volta in G.B. Agucchi, op. cit., p. 72.

[10] Cfr. Aristotele, Poetica, 1448 a 1-18 (ma cfr. pure 1449 a 32-34 e 1452 b 12-17). Proprio con il riferimento a questa celebre tesi comincia la parte del Trattato di Agucchi dedicata alla caricatura.

[11] Sulla caricatura come degradazione dell’“elevato”, ossia di qualcuno o di qualcosa che rivendica per sé autorità e rispetto, cfr. S. Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, trad. it. in Opere, vol. 5, Boringhieri, Torino 1972, pp. 178-179. In questo contesto Freud rileva che il difetto (o aspetto comico) messo in risalto è uno solo e che esso passa inosservato finché è percepibile nel quadro generale della figura. L’osservazione di Freud è condivisibile solo in parte: accanto a caricature in cui l’individuo ritratto si riduce pressoché integralmente all’esagerazione di un solo particolare ridicolo (naso, orecchie, bocca, ecc.), se ne trovano altre in cui la deformazione è distribuita fra più parti.

[12] Sul rapporto fra comico e grottesco cfr. W. Kayser, Das Groteske in der Malerei und Dichtung, Rowohlt, Reinbek b. Hamburg 1960. Kayser tende tuttavia a tenere distinti la caricatura e il grottesco (pp. 27-28).

[13] Cfr. Seneca, De tranquillitate animi, XV, 2 e De ira, II, x, 5.

[14] G.B. Agucchi, op. cit., p. 73.

[15] Sulla storia della fisiognomica e sulle sue correlazioni con l’arte figurativa cfr: J. Baltrušaitis, Aberrazioni. Saggio sulla leggenda delle forme, trad. it., Adelphi, Milano 1983; F. Caroli, Storia della fisiognomica. Arte e psicologia da Leonardo a Freud, Mondadori, Milano 1995; J.-J. Courtine – C. Laroche, Storia del viso. Esprimere e tacere le emozioni (XVI-XIX secolo), trad. it., Sellerio, Palermo 1992; P. Magli, L’anima e il volto. Fisiognomica e passioni, Bompiani, Milano 1995; R. Campe – M. Schneider (Hrsg.), Geschichten der Physiognomik. Text. Bild. Wissen, Rombach, Freiburg/B. 1996.

[16] Cfr. Aristotele, Analytica priora, 70 b 7-38.

[17] Secondo lo Pseudo-Aristotele (Physiognomonica, 806 a 22-27), la physiognōmonia tratta bensì dei pathēmata acquisiti (oltre che di quelli naturali), ma soltanto nella misura in cui essi, al loro sopraggiungere, producono un mutamento nei segni presi in considerazione.

[18] Ancora nel metodo classificatorio di Charles Le Brun si avverte parzialmente l’eco di questa teoria: ad ogni “passione dell’anima” corrisponde un’espressione del volto (cfr. Le figure delle passioni. Conferenze sull’espressione e la fisionomia, trad. it., Cortina, Milano 1992), ma l’ultima figura di ogni schema mostra alcune piccole modificazioni che annunciano il passaggio alla “passione” successiva.

[19] Sulla peculiare struttura dei sillogismi fisiognomici, con particolare riferimento al trattato dello Pseudo-Aristotele, cfr. A. Zucker, La physiognomonie antique et le langage animal du corps, 1.4, in “Rursus”, n. 1, 9 luglio 2006 (reperibile in versione elettronica al sito Internet: revel.unice.fr/rursus/document.html?id=58).

[20] Cfr. le riproduzioni e il commento in J. Baltrušaitis, op. cit., pp. 21-23.

[21] Su questo tema cfr. O. Meo, La logica del comico, in Id., Kantiana minora vel rariora, il melangolo, Genova 2000, pp. 15-46 (pp. 31-40 in particolare).

[22] Attira in particolare l’attenzione sul carattere metaforico della caricatura E. Kris, Psicologia della caricatura, in Ricerche, cit., p. 171 e I principî della caricatura, cit., p. 186. Ma cfr. pure T. Lipps, Komik und Humor. Eine psychologisch-ästhetische Untersuchung, Voss, Hamburg-Leipzig 1898, p. 47. La ragione s’intende facilmente: la caricatura è una forma di quel Witz o arguzia, di cui, in una nota (e arguta) definizione, Jean Paul dice che “è il prete travestito che sposa ogni coppia, e lo fa con diverse formule di rito” (Vorschule der Ästhetik, § 44, in Werke, Bd. V, Hanser, München 1963, p. 173). Un’altra corrispondenza fra Witz (inteso sia come “arguzia” sia come il suo prodotto, ossia il “motto di spirito”) e caricatura fu sottolineata da Kuno Fischer e ripresa da Freud, op. cit., p. 11: entrambi rivelano qualcosa che è segreto o nascosto.

[23] E. H. Gombrich, Arte e illusione. Studio sulla psicologia della rappresentazione pittorica, trad. it., Einaudi, Torino 1965, p. 418.

[24] Cfr. E. Kris, Psicologia della caricatura, cit., p. 177. Cfr. pure I principî della caricatura, cit., p. 199: “L’effetto della caricatura è improvviso, esplosivo”.

[25] Pseudonimo di Jean-Ignace-Isidore Gérard. Sugli aspetti fantastici e onirici della produzione di Grandville, con la sua tendenza al teratomorfismo e al grottesco, cfr. A. Castoldi, Grandville & Company. Il “perturbante” nell’illustrazione romantica, Lubrina, Bergamo 1987.

[26] L’opera è del 1841 (cfr. J. Baltrušaitis, op. cit., p. 53).

[27] Il particolare è tratto da Prima dell’alba (1922), una delle opere dell’album Ecce homo, che costò a Grosz un processo per oltraggio alla morale. Non è superfluo aggiungere che Grosz considerava epoche di decadenza quelle in cui la caricatura dilaga (cfr. W. Hofmann, op. cit., p. 134).

[28] Sull’arte del periodo compreso fra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento cfr. G. Briganti, I pittori dell’immaginario. Arte e rivoluzione psicologica, Electa, Milano 1989. Da parte sua, Gombrich (op. cit., p. 431) sottolinea il debito dei lineamenti stravolti di Munch e delle maschere mostruose di Ensor nei confronti di Daumier.

[29]  C. Baudelaire, Alcuni caricaturisti francesi [in Saggi sull’arte], trad. it. in Opere, Mondadori, Milano 1996, pp. 1128-1129.

[30] Ibid., p. 1132. Per Baudelaire Daumier è un vero “artista della vita moderna”. Per contro, il giudizio su Grandville, è duro e forse ingeneroso, sebbene egli avverta il tratto saliente della sua produzione, ossia la rappresentazione della verkehrte Welt, e non gli sfugga il fundus oscuro e instabile della sua personalità: “Allorché mi inoltro nell’opera di Grandville, avverto un certo malessere, come in un appartamento ove il disordine sia sistematicamente organizzato, tra cornicioni assurdi poggiati sul pavimento, tra quadri resi deformi da espedienti ottici, tra oggetti che si feriscono obliquamente con gli spigoli, dove i mobili stanno a gambe in su e i cassetti si conficcano invece di aprirsi” (ibid., p. 1139).

[31] A proposito dell’insistenza di Philipon sul fatto che la seconda immagine ressemble alla prima e così via, Gombrich (op. cit., p. 418) parla di “apologia dell’equivalenza”.

[32] Per un esame del lavoro dal punto di vista fisiognomico, cfr. E.H. Gombrich, L’immagine e l’occhio. Altri studi sulla psicologia della rappresentazione pittorica, trad. it., Einaudi, Torino 1985, p. 146: il trasferimento dell’aggrottamento della fronte di Luigi Filippo alle fessure cui si riducono gli occhi della pera toglie al suo volto ogni parvenza di bonomia e suggerisce la sua cattiveria. Un’analisi semiotica del lavoro è condotta da I. Magli, op. cit., pp. 235-236.

[33] Da “La Stampa”, 9 gennaio 2004.

[34]  Per una discussione più ampia degli aspetti logici, ontologici e semiotici del problema delle figure ambigue, cfr. O. Meo, Mondi possibili. Un’indagine sulla costruzione percettiva dell’oggetto estetico, il melangolo, Genova 2002, pp. 65-72. Ivi sono menzionate pure alcune delle caricature qui discusse.

[35] Ciò non vale per Forattini, che trova nel gioco verbale la scintilla per lo scaturire della pointe comica e che prende spunto da un episodio occasionale.

[36] Per un approfondimento di questi temi, cfr. O. Meo, Questioni di filosofia dello stile, il melangolo, Genova 2008, cap. 3.

[37] Cfr. J.C. Lavater – G.C. Lichtenberg, Lo specchio dell’anima. Pro e contro la fisiognomica in un dibattito settecentesco, trad. it., Il Poligrafo, Padova 1991.

[38] Da “Panorama”, n. 21, 2008 (reperibile in versione elettronica al sito Internet: gallery/panorama/it/gallery/le_vignette_di _Forattini/30830_le_vignette.html).

[39] La tesi secondo cui la caricatura penetra “fino all’essenza del carattere” costituisce il nucleo centrale del lavoro di Kris (cfr. in particolare I principî della caricatura, cit., pp. 186 e 194).

[40] Per ulteriori approfondimenti cfr. W. Hofmann, op. cit., p. 108.

[41] Sull’“ombranalisi” di Lavater cfr. V. Stoichita, Breve storia dell’ombra. Dalle origini della pittura alla Pop Art, il Saggiatore, Milano 2000, pp. 143-156.

[42] Per i rapporti fra la produzione di alcuni di questi artisti e la fisiognomica, con particolare riferimento alle tavole annesse alle Conferenze di Le Brun, cfr. O. Meo, Rappresentazioni della follia. Un itinerario nella pittura europea da Bosch a Soutine (in “Atti della Accademia Ligure di Scienze e Lettere” – Serie VI – Vol. XI – 2008, Genova 2009, pp. 89-139).


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