Fermenti illuministici nella Napoli del Settecento

Il sogno fallito di uno Stato “migliore”

di Ida Li Vigni

… non bisogna trascurare il largo contributo che a quella classe apportò la nobiltà; la quale, nella sua parte migliore … contò nelle sue file un Raimondo di Sangro principe di Sansevero, un Gaetano Filangieri, un marchese Palmieri, un Salvatore Pignatelli principe di Strongoli, un duca di Cantalupo de Gennaro, un marchese Caracciolo, e altri scrittori…[1]

Caspar van Wittel - National Maritime Museum BHC1900. Title: The Darsena delle Galere and Castello Nuovo at Naples. Date: 1703. Materials: oil on panel. Dimensions: 75.5 x 141 cm. Nr.: BHC1900. Source: http://collections.rmg.co.uk/mediaLib/380/media-380929/large.jpg.

Caspar van Wittel – La darsena delle galere e il Castello Nuovo a Napoli, 1703

Se è vero, come spessissimo viene affermato, che dalla fine del Seicento fino almeno agli anni Settanta del Settecento Napoli conobbe una rigogliosa fioritura culturale e forti aspirazioni sociali, tuttavia non si può negare che il sogno di una attiva collaborazione fra élite intellettuale e uomini di governo, quale si venne a realizzare in Lombardia e Toscana sia pure con intensità e modalità diverse, non riuscì ad affermarsi nel Napoletano, prima a causa del moderatismo tentennante di Carlo III e del suo onnipresente ministro Tanucci, poi per la reazione violenta di Ferdinando IV e della nobiltà locale alle proposte riformiste, le quali finirono con l’esaurirsi sotto i colpi di una crudele campagna persecutoria. Se fra il 1750 e il 1776 Antonio Genovesi, padre e maestro degli illuministi meridionali, aveva potuto ancora illudersi di poter “guidare” dalla sua cattedra di economia l’ambiguo e cinico Tanucci verso una nuova e più energica politica economica, dal 1780 sino alla fine del secolo la nuova generazione di riformisti, quasi tutti discepoli del Genovesi, dovette prendere atto (spesso anche pagando di persona) del crollo di ogni possibilità di concreta collaborazione col governo borbonico. Il fatto è che nel Napoletano mancavano quei presupposti storico-politici che avevano favorito nel Granducato di Toscana il concreto e immediato ricambio fra idee ed azione. La presenza di sovrani bigotti e preoccupati solo di contenere il potere baronale, la drammatica arretratezza economica del Regno, la persistenza di una situazione politica sociale giuridica contrassegnata da un feudalesimo ancora imperante, da un ceto forense intrigante e conservatore e dall’assenza di mobilità sociale, unitamente alla secolare tutela spagnola e alla soggezione alla Chiesa di Roma, non potevano certo favorire la realizzazione di un piano generale di riforme economico-sociali quale i riformisti andavano suggerendo e che le stesse condizioni del Regno di fatto imponevano. Del pari, la presenza pur forte, nonostante i bandi reali ed ecclesiastici, della massoneria poteva riuscire a creare quell’incontro collaborativo fra aristocrazia illuminata e borghesia riformista che improntò l’esperienza lombarda. Il fatto è che la compresenza nelle logge meridionali di aristocratici, funzionari del regno, ecclesiastici ed intellettuali non sortì alcun progetto organico di trasformazione della realtà sociale ed intellettuale, sicché il sogno di un’ideale fratellanza ed eguaglianza rimase lettera morta, provocando già a partire dal primo editto di Carlo III contro la Massoneria una frattura fra i “figli della Vedova”, con gli aristocratici che si trinceravano su posizioni meramente speculative e comunque apolitiche (come sembra fare Raimondo de Sangro) e borghesi sempre più vicini alla politica “pratica” giacobina. E’ anche a causa di questa mancanza di un progetto comune riformatore che, fallito il sogno sotto Maria Carolina e il suo ministro John Acton, che pure avevano accolto positivamente alcune delle richieste dei riformatori, di veder concretizzate le idealità dei lumi, agli intellettuali meridionali che troppo ottimisticamente si erano illusi di poter cambiare lo stato delle cose semplicemente affidandosi alle ragioni delle lumières e senza impegnarsi a formare una nuova classe politica aperta a tutti gli strati sociali non rimase che rivolgersi sempre più verso le idee di libertà e di uguaglianza, nel tentativo di creare una repubblica retta da una costituzione egalitaria, di tipo francese, o chiudersi in un isolamento nostalgico. E a pagarne il costo saranno proprio quegli intellettuali massoni o ex-massonici come Delfico e Pagano che andarono a infoltire le fila dei club giacobini italiani.

Da quanto detto risulta evidente come il fervore riformistico degli intellettuali napoletani conquistati dai miti dei lumi non potesse fruttificare se non nella forma di una fertile proliferazione di nuove dottrine, ovvero nell’elaborazione e divulgazione a stampa dei principi economici, civili, giuridici e commerciali in buona parte assimilati dalla cultura francese, inglese o olandese, ma comunque svolti con assoluta originalità speculativa. Eredi diretti della grande lezione filosofica vichiana e del coraggioso impegno civile giannoniano, i vari Genovesi, Galiani, Pagano, Delfico e Russo diedero un carattere spiccatamente filosofico al loro riformismo, lasciando in testamento a quanti ne volessero riprendere gli entusiasmi e le idealità una copiosa produzione letteraria in cui oggi è possibile alcune dele pagine più belle e significative di tutta la grande stagione illuminista italiana.

Ideale rappresentante delle più interessanti caratteristiche dell’Illuminismo napoletano fu quell’Antonio Genovesi (1713-1769) le cui lezioni universitarie tanta parte ebbero nella formazione del nutrito gruppo dei riformatori meridionali. Fin da giovane, nonostante l’inclinazione per le lettere, per imposizione del padre aveva dovuto dedicarsi agli studi di teologia in seminario. Ordinato prete nel 1737, l’anno dopo si recò a Napoli, dove iniziò a frequentare i letterati della città inizialmente guadagnandosi da vivere insegnando teologia e filosofia in una scuola privata. Messosi presto in luce per le sue vivaci doti intellettuali ed appoggiato dal celebre Celestino Galiani, cappellano maggiore del Regno, nel 1741 ottenne come professore universitario straordinario la cattedra di metafisica, mutata quattro anni dopo in quella di etica. Tuttavia, il tenore delle sue lezioni e dei suoi scritti (dal De anima brutorum ai cinque libri degli Elementarum artis logico-criticae, dalla Disputatio physico-historica de rerum origine et constitutione all’edizione annotata degli Elementa physicae dello scienziato olandese Pietro van Musschenbroeck), in cui largamente citava i filosofi deisti e protestanti, sia pur per confutarne sommariamente le dottrine, non poteva non destare i sospetti di quelle autorità ecclesiastiche che circa un ventennio prima erano riuscite a liberarsi del Giannone. Così, quando nel 1748 si rese vacante la prestigiosa cattedra di teologia e Genovesi avanzò la propria candidatura, nonostante il parere favorevole dei Gesuiti napoletani, si vide respinto a causa della durissima campagna promossa dall’arcivescovo di Napoli, il cardinale Giuseppe Spinelli, e dal nunzio apostolico a Napoli, Ludovico Gualterio de’ Gualteri. Stimolato dalle violente dispute che seguirono al suo insuccesso, Genovesi si indirizzò i suoi interessi verso quelle problematiche civili e sociali che già aveva affrontato, sia pur affrettatamente, quando si era occupato delle origini delle leggi e dell’ordinamento sociale. Detto per inciso, la persecuzione di cui era stato oggetto, oltre ad allargare la cerchia delle sue frequentazioni amichevoli a personaggi come Raimondo di Sangro principe di Sansevero e F.P.B. De Felice, gli offrì offerto infatti l’occasione di entrare a far parte del cenacolo che in quegli anni si era venuto a creare intorno all’Intieri. Di certo alla svolta del Genovesi contribuirono sia l’adesione alla massoneria e l’amicizia con il San Severo, sia l’incontro con il toscano Bartolomeo Intieri, celebre per le sue qualità tecniche di riformatore agrario, il quale gli fece leggere quel Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire l’agricoltura di Ubaldo Montelatici, fondatore della toscana Accademia dei Georgofili, che l’abate campano avrebbe ristampato nel 1753 premettendovi di proprio pugno il Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, un breve saggio in cui proclamava il proprio mutamento di interessi. Fin dalle prime parole di questo saggio si può registrare quanto radicalmente l’abate si allontani dalle dispute metafisico-teologiche che ancora nei primi decenni del Settecento proponevano il problema della “città ideale” dell’uomo e si accosti, di contro, a quei problemi concreti della società civile dalla soluzione dei quali sarebbe dovuta sorgere la “città reale” vagheggiata dall’Illuminismo d’oltralpe:

… Strana cosa potrà per avventura ad alcuni parere, riverito n. sig. d. Bartolomeo, che io già coltivatore delle scienze metafisiche … poi dalla clemenza del re … proposto ad insegnare la filosofia dei costumi; ora con un nuovo consiglio siami messo a promuovere tra’ nostri (‘agricoltura, arte … tanto si stima meno convenire agli allievi delle contemplatrici scuole. Ma dove costoro vorranno por mente al vero fine della filosofia e delle lettere, che è di giovare alle bisogne della vita umana, essi vedranno con loro rossore non solo avere di quelle non giusta opinione, ma oltracciò avere i nostri maggiori … come molto disonorata la filosofia e le lettere …

Se il vero fine della filosofia e delle lettere è quello di “giovare alle bisogne della vita umana”, compito del filosofo sarà quello di abbandonare le astratte ed inconcludenti speculazioni metafisiche per affrontare e risolvere quei problemi di natura civile e morale che effettivamente intervengono nella costruzione della società umana. Far incontrare una volta per sempre la filosofia e le scienze, fondare una scienza umanistica che accolga in sé una filosofia della fattualità e l’esplicazione degli elementi che consentano alla fattualità di concretizzarsi positivamente: questa fu la grande lezione filosofica (ma forse sarebbe più corretto definirla metodologica) che Genovesi impartì agli illuministi della seconda generazione e ai loro eredi ottocenteschi. Per questo Genovesi, cui era stata conferita nel 1754 la cattedra di “commercio e di meccanica” (oggi diremmo la cattedra di economia) fondata dall’lntieri, continuò i suoi studi sulle dottrine morali, affiancandoli all’approfondimento di quei temi di economia e di commercio che l’incarico universitario gli “imponeva”. Nacquero così le celebri Lezioni di commercio o sia di economia civile (1765-1767), raccolta, riveduta e aggiornata, delle lezioni che aveva tenuto nel 1757- 1758; le contorte Meditazioni filosofiche sulla filosofia e sulla morale (1758), che Baretti esaltò sul secondo numero della “Frusta letteraria” come il frutto del “più profondo speculatore e filosofo che abbia scritto in lingua italiana”; le Lettere filosofiche ad un amico provinciale per servire di rischiaramento agli Elementi metafisici (1759); le Lettere accademiche sulla questione se siano più felici gl’ignoranti che gli scienziati (1764), con cui tentava una poco convincente confutazione del pensiero di Rousseau; e ancora: le Istituzioni di metafisica per principianti (1766), la Logica pe’ giovanetti (1766) e la Diocesina o sia filosofia dell’onesto e del giusto (di cui la prima parte uscì nel 1766, mentre la seconda fu pubblicata postuma nel 1771), per non parlare delle numerose traduzioni di testi di economia o dei tanti brevi saggi editoriali.

Sono tutte opere che attestano il sostanziale moderatismo dell’abate salernitano, il quale non aderì mai completamente né alle tesi radicali dei filosofi d’oltralpe, né alle più moderne idee fisiocratiche, tanto da occupare, rispetto al panorama generale della cultura italiana del secondo Settecento, una posizione intermedia fra la generazione più arcaica dei riformisti e quella decisamente attestata su posizioni radicali quale fu la generazione dei Beccaria, Verri, Longo e Paoletti. Una prima prova di questo cauto attestarsi fra tradizione e lumières ci è offerta dai suoi scritti più propriamente filosofici ed in particolare dalla Diocesina, da lui presentata come la sua maggiore sintesi di “filosofia morale”. L’uomo che nel 1754 aveva lanciato agli intellettuali italiani questo l’appello indiscutibilmente umanistico

… cominciate, vi prego, ad unirvi più alla Società degli Uomini, e non mi state a commendar tanto la Metafisica e la Critica … sosterrò sempre, che poiché i Filosofi sono della razza umana, convenga anche loro pensare meglio agli uomini, che alle cose che sono sopra di noi …,

nella Diocesina esordiva dichiarando di volere considerare soltanto la “natura delle cose medesime” e non le autorità, di qualsivoglia tendenza esse fossero. Con questa battuta polemica contro le diverse forme di dogmatismo, colpevoli di non guardare all’esperienza concreta, egli rilanciava quel progetto di filosofia dell’uomo che già era stato annunciato in Italia dal Vico.

Metodo galileiano e suggestioni lockiane sono alla base del sistema filosofico proposto dal Genovesi: convinto che solo i sensi e l’esperienza possono essere le sorgenti primitive delle idee, egli dichiara che l’uomo non può apprendere nulla circa le sostanze, così come non può penetrare nell’essenza delle cose, ma può soltanto studiare i fenomeni. Dimostrata l’inutilità della metafisica, egli passava a discutere dei problemi inerenti la società e le forme di governo, delineando un amplissimo quadro delle capacità e delle attitudini umane, dallo stato di natura a quello civile, in un continuum storico che non conosce il dramma dei ricorsi vichiani ma che è regolato da una legge, la provvidenza fattuale, di natura precipuamente economica. Se nello stato di natura, cioé lo stato originario, tutto è volto spontaneamente al bene e all’ordine, via via che i rapporti sociali si complicano e rischiano di allontanarsi dall’ordine si impone la necessità di recuperare l’originario senso d’armonia utilizzando la nozione di conoscenza-calcolo che sta alla base dei rapporti fra le cose umane. Questa conoscenza-calcolo si applica sostanzialmente non alle divisioni naturali (del tipo “uomo/bestia”), bensì a quelle sociali (le “classi”), le quali “… non nascono … che dai fatti e dalle convenzioni umane …”. Il problema, di conseguenza, non è quello di ribadire o di dimostrare l’eguaglianza naturale degli uomini, che è un fatto già dato ab origine, bensì quello di regolamentare armoniosamente le divisioni di classe. Tale operazione ha come fine precipuo quello di conservare l’ordine sociale e di conseguenza non deve guardare al raggiungimento dell’eguaglianza assoluta (da cui la contestazione della tesi comunistica del Code de la nature di Morellet, da lui erroneamente attribuita a Rousseau) ma alla realizzazione della eguaglianza di diritto. Il meccanismo regolatore sarà quello economico, ovvero il lusso (o denaro), cui Genovesi conferisce la funzione di normalizzare la distribuzione delle ricchezze e quindi i complessi rapporti fra le diverse forze sociali. Infatti, se da un lato le spese superflue dei ricchi appaiono come uno sperpero dei patrimoni, dall’altro quelle stesse spese alimentano le arti, offrendo così all’eccesso di popolazione che non trova sostentamento dalla terra un lavoro. Si tratta di una visione moderata e per molti aspetti conservatrice, aperta sì alle più evidenti necessità di riforma ma cieca rispetto ai problemi sociali delle grandi masse popolari ed incapace di formulare una definizione originale di governo ideale in grado di superare i limiti di un moderatismo preilluminista. Una visione in linea con le posizioni della massoneria, cui aveva aderito, e condivisa certamente dal moderato Raimondo de Sangro che, nonostante l’abiura, continuò ad essergli amico tanto da provvedere alla sua sepoltura

Se come filosofo Genovesi non mostra particolare originalità, più audace e interessante risulta quando veste i panni dell’economista, sicché se si vuole individuare il vero nucleo originale del suo pensiero occorre guardare alle Lezioni di commercio. In questo testo il neomercantilismo di partenza acquista progressivamente i toni del liberalismo più avanzato, assunto come l’elemento chiave della vita economica fondata sulla molteplicità delle diverse attività autonome di produzione e di scambio. Del commercio, argomento “pratico” che lo esonera dal fornire funamboliche giustificazioni filosofiche, Genovesi analizza acutamente tutte le esigenze, ne indica il valore di agente regolatore dell’incivilimento e lo oppone alla guerra, condannata in quanto manifestazione di barbarie ed elemento di decadimento sociale. Colpisce la capacità di armonizzare i motivi chiave del neomercantilismo con quelli del fisiocraticismo e di condannare duramente quelle istituzioni che da secoli impoverivano gli Stati con i loro privilegi. Particolarmente dura è la critica che egli muove alla Chiesa, da lui ritenuta causa prima se non unica del dissesto economico del Regno:

… lo ho lasciato a bella posta l’articolo del denaro che va fuori o per debiti nazionali, … o per gli diritti ecclesiastici: il quale solo mantiene aperto uno scolo nel regno, che appena io mi creda che possa essere per verun mezzo riturato sì fattamente che non ci venga a dissecare fino alle ossa … Dunque è da conchiudere che a noi è per ogni verso necessario un commercio ben inteso e ben regolato, non già per arricchire, ch’io non istimo un bene per niuna azione, ma per sostenerci e impiegare i nostri poveri; … La massima fondamentale di questo commercio dovrebb’essere: lasciate uscire con la massima facilità, speditezza e libertà ogni derrata e ogni manifattura interna che sovrabbonda; impedite quanto più si può le forestiere, che avviliscono quelle che fra noi nascono o si fanno …

Allo studio del commercio segue l’analisi degli elementi necessari allo sviluppo dell’economia, condotta tramite un’attenta indagine sui mezzi tecnici indispensabili all’incremento della produzione agricola e sulla funzione del lusso, definito l’elemento stimolatore della produzione dei beni e della circolazione dei capitali. Da qui l’appello, posto a chiusura del libro I delle Lezioni di commercio, a tutte le classi sociali interessate alla produzione affinché collaborassero attivamente e concordemente, al di là dei consueti privilegi che ostacolavano l’ascesa del ceto medio, alla rinascita sociale ed economica del Regno. Ma perché queste forze potessero manifestarsi ed agire era indispensabile abbattere gli ostacoli costituiti da leggi e consuetudini inique ed antiquate: da qui la proposta di attuare una riforma che rendesse le terre “tutte soggette a’ tributi e agli altri pesi pubblici” e che garantisse ai coltivatori e ai pastori la proporzionalità delle imposte in base all’effettiva entità economica delle proprietà e della produzione. Alla riflessione sui principi economici corrisponde dunque una visione più radicale della vita civile e di conseguenza una disponibilità più coraggiosa alle requisitorie feroci contro le sperequazioni sociali, come quando vengono attaccate con accenti giannoniani le Decretali papali che costituivano delle vere e proprie usurpazioni del diritto civile. Sono punte di una contestazione destinata a smorzarsi negli anni della Diocesina, quando ormai Genovesi, quasi timoroso di cooperare a quella rottura della tradizione che altri riformatori italiani stavano tentando, si trincererà dietro ampollose e banali (oltre che illeggibili) dissertazioni filosofiche.  E non è certo un caso, visto che ormai nel 1767 il clima politico napoletano stava cambiando e si avvertivano i primi segni dell’impossibilità di una fattiva collaborazione fra riformatori e governanti. Difatti il Genovesi sarà indagato per eresia, così come il Principe di San Severo, suo ottimo amico ed allievo:

Egli era degli intimi amici delle Maestà loro: ma la lettera apologetica De Quipue, scritta con più di libertà di quello che i teologi avrebbero voluto, e l’essersi poi scoverto capo dei liberi muratori di Napoli, gli concitarono tale nemicizia de’ preti, e specialmente del cardinale Spinelli, che niuna occasione ometteva per giustificare i suoi antecedenti passi, che il minarono nell’animo del Re.[2]

D’altra parte già nel 1746 c’era stato lo scontro con l’arcivescovo cardinale G. Spinelli e i Padri Molinari e Pepe che avevano cercato di introdurre, tentativo peraltro fallito, il tribunale dell’Inquisizione e che del Principe, fra l’altro, saranno sempre nemici e in quell’occasione Genovesi aveva ammonito:

Vegliare sulle intraprese di Roma e degli arcivescovi di Napoli, per quello che appartiene a questo formidabile e sanguinario tribunale.

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Ferdinando Galiani

Se Genovesi fu l’uomo che mediò e filtrò la penetrazione delle tematiche illuministe più radicali nel Regno di Napoli, Ferdinando Galiani (1728-1787) fu colui che impresse un’impronta originale e complessa al riformismo meridionale. Personalità bizzarra e per molti aspetti paradossale, portato dal suo spirito realistico a contrapporre le proprie esperienze, i propri gusti e spesso anche le proprie prevenzioni alle idee generali del secolo, Galiani fu indubbiamente un uomo di genio, forse il pensatore più originale che l’Italia del XVIII secolo abbia prodotto dopo Vico, anche se molte volte l’acume delle sue osservazioni rischia di perdersi nel gusto per la critica demolitrice fine a se stessa o per i bei giochi di spirito. Nonostante ciò, Galiani è uno degli scrittori che più si distinse nel porre il mondo culturale italiano in contatto con i filoni più innovativi del movimento delle lumières, al di là delle sue frequenti posizioni contestatarie nei confronti dei filosofi d’oltralpe.

Nativo di Chieti, grazie allo zio Celestino (in quegli anni arcivescovo di Taranto e primo elemosiniere del re) aveva potuto compiere i suoi studi a Napoli, nel convento di San Pietro dei Celestini. Di ingegno precoce, quasi a compensare il peso della deformità fisica e di una salute malferma, già nel 1744 aveva composto due scritti che ne mettevano in rilievo le doti letterarie e l’acume critico: l’Amor platonico, trattatello di carattere filosofico, e Sullo stato della moneta ai tempi della guerra troiana, un interessante tentativo di ricerca storica sull’economia antica da cui sarebbe scaturito il celebre trattato Della moneta. Cinque anni dopo, incattivito dal rifiuto oppostogli da un’accademia di leggere in sostituzione del fratello archeologo un proprio scritto, diede prova del suo feroce humour dando alle stampe i Componimenti varii sulla morte di Domenico Jannacone boia della Grande Corte del Regno di Napoli, raccolti e pubblicati da don Antonio Sergio, avvocato napoletano, dedicati da un pastore dell’Arcadia all’illustre Tirapiedi, fedele compagno del defunto, vendicativa parodia dello stile e dei costumi delle Accademie. Nel settembre del 1751 pubblicò anonimamente il suo capolavoro, il trattato Della moneta, un’opera che raggiunse immediato successo e che fu accolta e tradotta quasi subito in Francia. In un primo momento, data la maturità della visione economica e considerata l’accuratezza dell’analisi tecnica, si attribuì la paternità del trattato all’Intieri o ad Alessandro Rinuccini; poi, quando ci si rese conto che era il frutto dell’appena ventitreenne Galiani, si gridò al miracolo. L’opera, che avrebbe trovato larga eco in Francia e Germania e di cui si sarebbero occupati gli economisti e gli storici dell’economia dell’Ottocento e della prima metà del Novecento (da Marx a Bohm Bawerk, da Heimann ad Einaudi, per fare alcuni nomi), giustificava pienamente tanto stupore e tanta ammirazione, specialmente per la straordinaria sicurezza metodologica con cui il giovanissimo autore veniva individuando i due elementi chiave del concetto moderno di valore: quello soggettivo di utilità e quello oggettivo di rarità. Definiti questi due elementi, Galiani conferisce alla moneta, al di là delle tradizionali definizioni astratte di misura e di rappresentazione simbolica del valore, la funzione ben più concreta di mezzo di scambio, anche se sempre all’interno della funzione generale ed incompleta di simbolo del valore. Il discorso sul valore della moneta portava inevitabilmente a considerare il valore dei metalli ed ancora una volta Galiani dimostra la sua grandezza critica: i metalli, egli afferma, hanno più valore “come metalli che come moneta”, ovvero valgono per il loro valore intrinseco e non per la loro ideale ed astratta assimilazione alla moneta che si viene a coniare con essi, sicché ne deriva che essi si usano “… per moneta perché vagliono, e non vagliono perché usansi per moneta …”. Egualmente interessanti sono poi le osservazioni che egli formula sulle “monete di conto”, ossia le antiche monete dei vari Stati assunte come unità di misura ideali delle nuove coniazioni, ma anche sulle svalutazioni indotte in quegli anni dai governi diminuendo la quantità di metallo prezioso contenuta nella lega della moneta, sulla carta moneta, i cambi e l’interesse del denaro.

Il successo aprì a Galiani la strada non solo della carriera di teorico dell’ economia ma anche quella di funzionario statale: nel 1753 fu nominato membro dell’Accademia; tra il 1754 e il 1758 pubblicò il Della perfetta conservazione del grano (apparso come opera dell’Intieri, ma in realtà interamente opera sua) e il Delle lodi di Benedetto XIV; infine, nel 1759, fu nominato segretario dell’ambasciata napoletana a Parigi, dove resterà dieci anni. Fu l’inizio della sua grande stagione: ricercato nei salotti parigini per la sua conversazione arguta e brillante, frequentò l’élite intellettuale che si raccoglieva attorno a madame d’Epinay e ad Holbach, entrando così in contatto diretto con l’intellighenzia illuminista e stringendo rapporti di amicizia con Diderot, Morellet (che aveva diffuso il Della moneta in Francia), Grimm e d’Holbach stesso.

Ma il suo spirito pungente e demolitore doveva farsi presto sentire: in risposta alla trionfale accoglienza offertagli dai filosofi d’oltralpe, eccolo comporre i Dialogues sur le commerce des blés (1769), un’aperta critica a quella scuola fisiocratica cui avevano aderito molti illuministi francesi e italiani. In quest’opera Galiani, che pure si era pronunciato qualche anno prima in favore delle teorie fisiocratiche, avvalendosi della sua esperienza di attento osservatore delle realtà economiche e sociali, ridicolizzava il dogmatismo fisiocratico e dimostrava come i principi del liberalismo commerciale, validi genericamente, erano tali da non poter essere applicati in modo integrale ed acritico a situazioni economiche, sociali e produttive che variavano profondamente da Stato a Stato. Per quanto corretta, questa critica nascondeva un fondo reazionario, dato che Galiani volutamente vi disconosceva l’autonomia della scienza e della realtà economica nei confronti del potere. E tuttavia egli riusciva ancora una volta a dimostrarsi molto più realistico e critico dei suoi avversari nel comprendere quali fossero le basi effettivamente necessarie per lo sviluppo economico di uno Stato, come si può ricavare dal passo in cui proclama che non si devono sacrificare ai dogmi del liberalismo economico i bisogni di sviluppo delle manifatture o come quando sottolinea la necessità di formulare un piano economico generale in grado di bilanciare gli eventuali crolli produttivi dell’agricoltura con le entrate procurate dalle manifatture:

… le manifatture arricchiscono una classe del popolo che è limitrofa ed alleata a quella degli agricoltori… Il profitto sicuro se pur modico delle manifatture è il solo che possa ristabilire la bilancia nella ineguaglianza di effetti delle varie stagioni, e le cattive stagioni sono la sola causa della rovina dell’ agricoltura ….

Rientrato a Napoli, Galiani proseguì brillantemente la carriera di funzionario, arrivando nel 1782 alla carica d’assessore nel Consiglio Supremo delle Finanze; una carica che lo spinse a fissare in memorie, consulti e pareri (rimasti per lo più inediti) le osservazioni che gli venivano suggerite dalla sua mansione di accorto amministratore. Parallelamente, compose altre opere, letterarie e politiche: il Socrate immaginario, un’opera buffa del 1777 verseggiata dal Lorenzi, la Descrizione della spaventosa eruzione del Vesuvio (1779), il trattato Del dialetto napoletano, che lo collocò fra i primi studiosi e difensori del dialetto di contro ai puristi, e la dissertazione Sui doveri dei principi neutrali verso i principi belligeranti e di questi verso i neutrali (1782), oltre all’inedito Degl’istinti e dei gusti abituali dell’uomo. Scettico nei confronti della possibilità di riuscire a conoscere il sistema della natura ed estraneo alle grandi problematiche metafisiche o semplicemente filosofiche, Galiani rimase sino alla fine fedele all’ideale socratico, ovvero a quello studio dell’uomo e della vita sociale da cui auspicava la nascita se non di una società radicalmente nuova, almeno di una società umana più equilibrata e più “morbida” nei suoi contrasti interni. Su questo piano, al di là delle frecciate pungenti contro i salottieri e dogmatici rappresentanti dell’ésprit philosophique, continuava la via riformista tracciata dalle lumières e la trasmetteva alle generazioni future, indicando al contempo i diversi orientamenti che il pensiero illuminista avrebbe finito col prendere al mutare delle condizioni politiche ed economiche.

Vero esempio di “filosofo” settecentesco filantropo e cosmopolita, Gaetano Filangieri (1753-1788) può essere considerato a ragione come uno dei più emblematici rappresentanti di quel riformismo dottrinario che coltivò il sogno di poter rendere felice e civile qualsiasi società umana in forza soltanto della ragione e della “filosofia”, quasi che l’impossibilità di veder realizzati nell’imminente storico i progetti di riforma, da un lato, e l’incontro con le idealità massoniche, dall’altro, lo risospingessero verso quel mito della “città ideale” dell’uomo che l’Illuminismo d’oltralpe e il riformismo attivo toscano e lombardo cercavano di tradurre nella costruzione concreta della “città reale”.

Terzogenito della famiglia principesca dei Filangieri di Arianello e quindi destinato per nascita alla carriera militare, il giovane Gaetano poté tuttavia dedicarsi agli amati studi di giurisprudenza grazie all’aiuto del suo parente Luca Nicola De Luca e all’intervento dello zio Serafino Filangieri, arcivescovo di Palermo e poi di Napoli, e di alcuni esponenti della cultura siciliana, filogiansenisti in campo religioso e progressisti in quello economico-politico, che allora animavano la corte dell’arcivescovo. Nonostante questi appoggi, soltanto nel 1783 poté abbandonare la carriera militare per ritirarsi a vita privata nei possedimenti di La Cava, salvo interrompere quell’isolamento quattro anni dopo, quando accettò la nomina a membro del Supremo Consiglio delle Finanze voluta dal ministro Acton con cui ufficialmente il governo riconosceva quella fama di geniale studioso di problemi giuridici che si era conquistato con la pubblicazione dei primi volumi de La scienza della legislazione. Fedele agli ideali riformisti della sua generazione, Filangieri si sforzò per un anno di far tradurre in pratica, almeno nel settore finanziario, amministrativo e tributario che competeva alla sua carica, alcuni dei principi di rimodellamento sociale che pochi anni prima gli avevano attirato i plausi dell’intellighenzia europea, ma anche la feroce opposizione nobiliare e la censura ecclesiastica. Purtroppo la morte precoce (luglio 1788, a soli trentacinque anni) troncò ogni suo sogno operativo, anche se lo sottrasse al clima tragico della restaurazione reazionaria ferdinandea ormai imminente.

Moriva lasciando in testamento spirituale quei libri de La scienza della legislazione, in parte editi e in parte frammentari e manoscritti (tra il 1780 e il 1783 uscirono soltanto i primi quattro, mentre i restanti non poterono essere pubblicati a causa dell’intervento della censura ecclesiastica e dei primi fermenti reazionari), di cui la dissertazione Della morale de’ legislatori, diffusa manoscritta nel 1772, e le Riflessioni politiche su l’ultima legge del sovrano che riguarda la riforma dell’amministrazione della giustizia, suggeritegli nel 1774 dal decreto con cui Tanucci tentava di arginare gli arbitri della magistratura, erano stati i primi significativi abbozzi.

Opera quanto mai complessa ed ambiziosa, La scienza della legislazione avrebbe dovuto costituire, stando al progetto originario, una panoramica critica delle diverse forme della vita civile ripartita in sette libri. Così, il I trattava delle “regole generali della scienza della legislazione” e dei suoi fini (la “conservazione” e la “tranquillità” sociale); il II era dedicato allo studio delle leggi politiche ed economiche; il III analizzava la procedura e le leggi criminali; il IV affrontava il problema delle “leggi che riguardano l’educazione, i costumi e l’istruzione pubblica” (argomento quanto mai adatto a suscitare le ire ecclesiastiche, visto che buona parte delle scuole erano gestite da loro e soprattutto dai Gesuiti), mentre il V, VI e VII, rimasti allo stato di abbozzi, dovevano trattare rispettivamente delle normative riguardanti la religione e delle leggi relative alla proprietà e alla famiglia. Un progetto grandioso e indubbiamente originale che se da un lato giustifica ampiamente i consensi entusiastici degli illuministi europei, dall’altro sembra motivare le critiche di quanti, pur trascurando di considerare storicamente Filangieri e quindi astraendo la sua opera da una precisa atmosfera intellettuale, di volta in volta ne hanno denunciato l’eccessivo astrattismo teorico e l’ottimistico idealismo di fondo.

Il fatto è che Filangieri, nutritosi dei modelli classici platonici e plutarchei come della “sociologia” di Montesquieu e di Rousseau, tenta di delineare lo schema di uno stato ideale, retto da leggi universalmente valide, assolutamente sganciato dalla considerazione critica della realtà storico-so- ciale, anche se poi in taluni punti riconosce che le leggi “universali” dovrebbero in qualche modo differenziarsi e relativizzarsi per adattarsi alle diverse situazioni sociali. Così, sorvolando sui principi della relatività e del pragmatismo sostenuti ad introduzione dell’opera, finisce col cadere in un astratto “filosofico” fondato unicamente sull’ottimistica fiducia nella efficacia delle mere dimostrazioni logiche, delle “buone” leggi e dei “perfetti” sistemi educativi, come quando scrive nel I libro:

… lo chiamo bontà assoluta delle leggi la loro armonia co’ principi universali della morale, comuni a tutte le nazioni, a tutti i governi, ed adattabili in tutti climi. Il diritto della natura contiene i principi immutabili di ciò che è giusto ed equo in tutti i casi. È facile il vedere quanto questa sorgente sia feconda per la legislazione … Esse [le leggi] non sono i resultati ambigui delle massime dei moralisti, né delle sterili meditazioni de’ filosofi. Queste sono i dettami di quel principio di ragione universale, di quel senso morale del cuore, che l’autore della natura ha impresso in tutti gli individui della nostra specie, come la misura vivente della giustizia e dell’onestà, che parla a tutti gli uomini il medesimo linguaggio e prescrive in tutti i tempi le medesime leggi.

o come quando nel IV libro celebra l’educazione greca, quale era stata concepita dagli antichi sul modello spartano, come paradigma eterno e immutabile che deve ripetersi sempre uguale nel corso della storia. È lo schematismo antistorico che si fa sentire in passi o casi quali quelli citati, unitamente ad una sicurezza dogmatica nella taumaturgica efficacia della ragione così cara ai filosofi d’oltralpe; e tuttavia non mancano pagine in cui Filangieri mostra di saper passare coerentemente dai principi generali all’analisi della realtà sociale concreta, con tutte le sue cancrene e le sue drammatiche diseguaglianze sociali. È quanto accade nel bellissimo libro II dove il nobile napoletano, discutendo delle leggi politiche ed economiche, può manifestare tutto il suo radicalismo riformatore, criticando quelle leggi, quegli usi e quella mentalità retriva che cooperavano a conservare nell’arretratezza civile ed economica la vita sociale del Regno. Nascono così i lucidissimi passi in cui vengono descritti i tragici effetti provocati dalla diseguale ripartizione delle proprietà e dei beni immobili, causa prima di quella divisione di classe fra “proprietari” e “mercenari” che genera soltanto miseria e rancori. L’aggancio alla situazione particolare del Regno consente a Filangieri di portare alla luce, senza le solite concessioni all’astrattismo filosofico, gli ostacoli reali che si oppongono ad una giusta riforma delle leggi sulla proprietà ed è la ormai consueta litania dei riformisti italiani: fidecommessi, maggioraschi, benefici ecclesiastici, divieti di alienare i fondi feudali. È una requisitoria dai toni accesamente polemici che riappare solo a tratti nel libro III con la denuncia della vergognosa amministrazione della giustizia affidata solo a giudici nominati dai baroni o a giudici mal pagati e quindi corrompibili e soggetti alle continue “pressioni” del baronaggio:

… questo magistrato, che è nel tempo stesso inquisitore fiscale e giudice;… non è altro che un miserabile e vile mercenario del barone … L’unico interesse di questo giudice è di profittare, quanto più si può, della sua carica, e di aderire ciecamente a’ capricci del barone … .

Raramente l’Illuminismo italiano, fatta eccezione per un altro nobile, il marchese Beccaria, ha trovato parole così impietose e dure per le sue requisitorie contro il potere.

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Melchiorre Delfico

Rappresentante tipico dell’ultima generazione illuminista, pericolosamente avviata o a rinchiudersi pessimisticamente in un antistorico ed astratto dogmatismo filosofico o a ridurre il tanto vagheggiato progresso dell’umanità in miracolosa illuminazione operata improvvisamente dalla Dea ragione, Melchiorre Delfico (1744-1835), lo storico di San Marino nonché il radicale e violento negatore di ogni valore della storia, fu forse l’unico dei riformatori meridionali ad accogliere e a sviluppare fino alle estreme conseguenze la lezione del Filangieri.

Figlio di una delle più nobili casate di Teramo, fin da giovane cercò di controbilanciare il clima provinciale di soffocante chiusura culturale che impregnava la sua città natale guardando alla cultura settentrionale, con la quale assai presto stabilì rapporti e contatti personali. Ventiquattrenne, si recò a Napoli ma il suo fu un soggiorno breve: profondamente deluso dalla cauta e tutto sommato immobilistica politica sostenuta dal Tanucci, dopo aver pubblicato il Saggio istorico delle ragioni dei sovrani di Napoli sopra la città d’Ascoli d’Abruzzo, oggi nella Marca (1768), fece ritorno a Teramo per chiudersi in una solitudine studiosa. Furono anni decisivi per la sua formazione che lo videro, fra il 1774 e il 1783, interessarsi ai problemi della vita morale negli scritti Saggio filosofico sul matrimonio (in cui contestava le teorie libertine) e Indizi di morale (1775) e a quelli relativi all’amministrazione ed all’economia della sua regione nel Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale (1782) e nella più celebre Memoria sulla coltivazione del riso nella provincia di Teramo (1783).

Uscito dall’isolamento, Delfico fece ritorno a Napoli dove si dedicò, fatta eccezione per il periodo in cui visitò l’Italia settentrionale, ad una intensa attività pubblicistica a favore delle riforme fondiarie e commerciali. Nacquero così la Memoria sul Tribunal della Grasica e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti del Regno (1785), il Discorso sul Tavoliere di Puglia (1788) e le Riflessioni sulla vendita dei feudi (1790), tutte opere in cui veniva proponendo la graduale riduzione dei mali economici e giuridici causati dal baronaggio attraverso la messa in vendita dei beni feudali incamerati dallo Stato per mancanza di eredi. Nel 1791 videro la luce le Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e dei suoi cultori, la sua prima opera veramente significativa, in cui affiancava alla critica delle “barbare” leggi del diritto romano un primo abbozzo di quella teoria della perfettibilità umana che sarà poi il nucleo centrale della sua successiva polemica requisitoria contro la Storia.

Con l’avvento dell’effimera e sfortunata stagione della Repubblica napoletana, Delfico entrò nella vita politica attiva accettando di essere messo a capo della municipalità di Teramo, ma il ritorno dei Borboni lo costrinse a cercare rifugio nella libera Repubblica di San Marino. Qui si fermò fino al 1806, anno in cui fu chiamato da Giuseppe Bonaparte a partecipare al Consiglio di Stato. Questi anni di esilio furono fondamentali per l’evoluzione del suo pensiero, poiché egli, dopo aver redatto le Memorie storiche della Repubblica di San Marino (1804) in cui esaltava quel piccolo e isolato Stato quale simbolo della libertà civile che si conserva “nello spirito di ragione e moderazione”, impresse una svolta radicalmente antistoricistica alla sua visione della società umana, fissandone le giustificazioni teoretiche nei Pensieri sulla storia e sulla incertezza e inutilità della medesima (1806). Sarà questa l’ultima opera del Delfico ma anche il suo ultimo momento di intervento polemico pubblico: con la seconda restaurazione reazionaria di Ferdinando IV egli, infatti, interruppe qualsiasi contatto con la vita pubblica, anche se forse ebbe una certa parte nei moti del 1820-21.

Indubbiamente, lo scritto più caratteristico del Delfico (ed anche il più condannato dai “filosofi della storia” italiani dell’Ottocento, fautori di una rivalutazione assolutamente ideologica del valore educativo della Storia) rimane l’opera Pensieri sulla storia in forza di quella visione amaramente antistoricistica che troppo spesso è stata fraintesa, dal momento che essa altro non era che l’espressione di un violento moto di ribellione contro quella “scienza” che aveva soltanto perpetuato orrori ed ingiustizie appoggiandosi alla falsa autorità di opinioni ormai sorpassate. Alla base dei Pensieri della storia poggia quel dogma della perfettibilità umana già sviluppato dal Filangieri che Delfico aveva portato alle estreme conseguenze negli anni della polemica contro il diritto romano, quando veniva ipotizzando la natura di un codice universale, assolutamente “buono” e applicabile a tutti i popoli, la cui concreta realizzazione avrebbe finalmente costituito il momento d’arresto della Storia. Scriveva Delfico: “… i corpi sociali non nutriranno nel loro seno un principio di decomposizione e di morte, e potranno aspirare all’immortalità come la verità che li anima e li vivifica … “; ovvero, la società umana migliorerà e si perfezionerà soltanto quando cesserà di cercare la verità nella Storia ed inizierà a guardare alle leggi della natura. Infatti, dato che la natura è sempre più o meno eguale a se stessa e dato che gli eventi storici si fondano su cause fisiologiche o meccaniche, la Storia si riduce a pura parvenza, sicché ” … non può esser che la ripetizione continua e successiva delle stesse cose ed azioni sotto nomi diversi … “. Proprio per questo essa è inutile, quando non è addirittura nociva, come accade quando essa, tramandando come esempi “morali” fatti iniqui e criminosi, finisce col dequalificare la funzione della provvidenza e della natura, le uniche vere guide della vita umana. Così procedendo contro la Storia, Delfico veniva inconsapevolmente svelando il fondo di pessimismo insito nelle teorizzazioni di alcuni illuministi d’oltralpe, i quali avevano condannato la Storia quale giustificatrice di tirannidi e di ingiustizie sociali, senza però rendersi conto che così facendo si finiva con l’aprire la strada o al materialismo o all’aborrito idealismo.

Forse Delfico nel lanciare dall’esilio sanmarinese la sua violenta requisitoria contro la Storia, rea di non voler o di non saper elevare “a speranze migliori” la società umana, stava pensando al tragico fallimento dell’effimera Repubblica napoletana e a quanti avevano pagato con la vita la dedizione ottimistica a quelle “speranze migliori”.

Una di queste vittime fu Francesco Pagano (1748-1799), allievo del Genovesi e amico di Filangeri con cui condivise l’appartenenza alla massoneria, l’unico degli intellettuali meridionali cui riuscì, sia pur con molte contraddizioni ed astrazioni, di conciliare la lezione vichiana con la filosofia di Rousseau e con le dottrine sul progresso di Turgot e Condorcet. Figlio di una famiglia benestante di Brienza, un paese posto sul confine fra il Salernitano e la Basilicata, a dodici anni fu mandato a Napoli per seguire il corso regolare di studi che doveva avviarlo alla carriera forense. L’incontro con un sacerdote progressista, Giovanni Spena, e con un frate minore, quel Gherardo de Angelis rimasto famoso per la sua vivace corrispondenza col Vico, ebbe un ruolo determinante nell’indirizzare il giovane provinciale verso quell’interesse per la filosofia della storia che costituirà il centro ideale di tutti i suoi scritti, così come l’adesione massonica lo porterà a sostenere i principi della ragione, della libertà e della giustizia sociale.

Già nel 1768, quando l’esordio nella carriera forense lo aveva spinto ad occuparsi dei problemi giuridici, l’interesse per la “nuova scienza” gli aveva dettato il Politicum universae Romanorum nomothesiae examen, in cui il progetto di una legislazione migliore, quale credeva di vedere realizzato nell’attività riformistica di Pietro Leopoldo di Toscana, e l’amore per la ricostruzione storica degli usi e delle leggi dei popoli “primitivi” si univano alla riflessione filosofica sui concetti di giustizia e di eguaglianza quali si potevano ricavare dagli esempi offerti dalla storia antica. Né il conferimento della cattedra di diritto penale (1775) e la nomina ad avvocato dei poveri del Tribunale dell’Ammiragliato e Consolato di mare gli dettarono altro che le pur notevoli Considerazioni sul processo criminale (1787), una breve ma originalissima analisi di quella procedura penale contro i crimini che il Beccaria non aveva affrontato, preferendole l’indagine sulla natura dei delitti e della proporzionalità delle pene. Il fatto è che egli si sentiva attratto quasi esclusivamente dalla storia e dalla politica, tanto da trovare l’ispirazione per le sue dissertazioni proprio negli eventi politici che di volta in volta colpivano maggiormente la sua attenzione.

Così, la vittoria russa sui Turchi nello stretto di Cesmè del 5 luglio 1770 gli ispirò la Oratio ad comitem Alexium Orlow, virum immortalem, victrici Moschorum classi in expeditione in Mediterraneum mare summo cum imperio praefectum, dove profetizzava l’imminente restaurazione della libertà in Grecia (ed è, questa, una delle prime formulazioni di quel mito destinato a diventare una “moda” nell’Ottocento romantico, tanto da spingere poeti e patrioti in esilio di ogni nazionalità a sacrificarsi per la liberazione della Grecia), e l’abolizione dell’assisa (la regolamentazione dei prezzi e delle modalità di vendita) gli dettò il Ragionamento sulla libertà del commercio del pesce in Napoli (1789) in difesa dei pescatori del Regno, perpetuamente vessati dallo sfruttamento dei grossisti, mentre la lettura delle opere di Boulanger lo spinse a comporre i due volumi dei Saggi politici (1783-1785), destinati a rimanere la sua opera più importante ma anche la più contestata dagli studiosi successivi. In realtà, appare veramente troppo affrettata l’accusa di superficialità e d’ambiguità teoretica rivolta contro il Pagano “filosofo della storia” da molti critici, anche recenti: se è vero che nei Saggi politici egli oscilla continuamente fra posizioni vichiane e suggestioni roussouiane, attingendo per di più molti passi direttamente da Buffon, Condorcet, Turgot e Boulanger (la sua fonte preferita), sicché finisce con il passare discontinuamente ed acriticamente dall’idea di un pacifico stato di natura dell’umanità “primitiva” all’idea di un originario stato ferino dell’umanità superato grazie alla spinta naturale del progresso, dalla teoria dei “ricorsi” alla concezione lineare del progresso civile, è del pari innegabile la presenza dietro i Saggi politici di una linea speculativa sostanzialmente unitaria ed originale. Quel suo tormentato e spesso incoerente indagare sugli stadi dell’incivilimento e sulla loro catena fino alla decadenza delle varie società altro non risponde, infatti, che alla precisa volontà di spiegare la società moderna mediante la storia antica, individuando in quest’ultima sia le cause che determinano i diversi processi di corruzione e decadenza, sia i rimedi necessari per la rinascita dell’umanità.

Ma c’è di più: analizzando il continuum storico e civile dell’umanità, Pagano “scopre” sulla scia di Boulanger che il moto di perfettibilità può esser accelerato, ritardato o fermato temporaneamente non soltanto da fattori umani (guerre, conquiste, commerci, ecc.) ma altresì da fattori naturali, primi fra tutti quelle immani catastrofi (terremoti, alluvioni, eruzioni vulcaniche) che producono grandi alterazioni nel corso “naturale” della storia. All’interno di questo quadro così complesso il soggetto operante nella storia resta comunque l’uomo sociale con i suoi bisogni materiali e spirituali, l’uomo che agisce in quanto determinato da cause esterne (la natura) e interne (lo spirito) e che perviene all’armonia civile quando si affida alla ragione e a quella “libertà” che è, come scrisse il Pagano nel Progetto di costituzione della Repubblica napolitana presentato al governo provvisorio dal Comitato di legislazione, “… la facoltà dell’uomo di valersi di tutte le sue forze morali e fisiche come gli piace, colla sola limitazione di non impedire agli altri di far lo stesso …”, un concetto che ribadisce una volta di più come per lui, forse il solo fra i vari Genovesi e Filangeri, la massoneria sia anche una guida preziosa nell’agire “profano”.

Per questa libertà, come per la difesa delle classi più povere ed angariate, combatté fino all’ultimo, restando a Napoli quando già Ferdinando IV vi era rientrato e vi stava scatenando la reazione. Già nel 1794 il coraggioso avvocato si era messo in evidenza prendendo le difese di tre giovani (Vitaliani, De Deo e Galiani) accusati di complotto giacobino e condannati a morte per ordine di Ferdinando IV: per questo gesto, due anni dopo, fu destituito dall’incarico universitario, privato della carica presso il Tribunale dell’Ammiragliato ed infine rinchiuso a Castel Sant’Elmo. Liberato nel 1798, cercò rifugio a Roma, dove era stata proclamata la Repubblica democratica, e poi a Milano, da cui ripartì al giungere delle prime notizie sull’occupazione francese di Napoli. Il difensore delle istanze libertarie non poteva certo mancare l’occasione di collaborare alla nascita di quello “Stato buono” che aveva disegnato, al pari degli altri riformatori meridionali, nei suoi scritti: eletto membro del Comitato di legislazione, riuscì a far approvare le leggi più significative della Repubblica napoletana, da quelle che sancivano l’abolizione della tortura a quelle in favore dell’eliminazione dei privilegi feudali ed ecclesiastici. Ma il suo sogno doveva presto svanire tragicamente: con il trionfo della II coalizione, Ferdinando poté riprendere il potere e dare avvio ad una violenta e cruenta repressione. Fedele ai suoi ideali, Mario Pagano parteciperà all’ultima strenua difesa dei repubblicani fino a quando, catturato e sommariamente processato, non sarà giustiziato il 29 ottobre del 1799.

Neppure un mese dopo, sarà la volta del non ancora trentenne Vincenzo Russo (1770-1799), l’ardente giacobino propugnatore nei Pensieri politici (1798) delle istanze ultrademocratiche venutesi a formare in seno all’ultima generazione degli illuministi meridionali: la sua morte, come quella del Pagano, sanciva drammaticamente il fallimento delle grandi idee di pacifica rigenerazione sociale e civile diffuse dai filosofi d’oltralpe ed imponeva ai loro ideali eredi la necessità di ricercare nuovi strumenti d’azione e nuovi supporti ideologici atti a rendere realizzabile nel concreto la progettata “città reale” dell’uomo.

Si chiudeva così il secolo della Napoli (e di tutta l’Italia) “illuminata”, il secolo che aveva visto lavorare fianco a fianco, con proficui scambi come nel caso del rapporto del Genovesi con il Principe di Sansevero, nelle Accademie e nelle Logge i sostenitori dell’ermetismo esoterico e i filosofi-“scienziati”, gli investigatori della natura naturata e i riformatori della città terrena, e si apriva una nuova stagione in cui l’agire e l’operare sembrano, sotto l’incalzare degli eventi politici, non riuscire più a dialogare con il pensare e il conoscere al di là della realtà fattiva.


Note

[1] Benedetto Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari, 1925.

[2] Antonio Genovesi, Autobiografia, in “Archivio storico per le Province Napoletane”, 1924 (Feltrinelli, Milano, 1962).


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