Lavarsi le mani per il rito del pasto

di Paolo Aldo Rossi

A proposito dei banchetti greci dell’età arcaica (dal X al VII secolo) e dell’età storica (dal VI secolo in poi) abbiamo notizie dai poemi e dagli inni omerici, da Esiodo, da Erodoto e dagli storici, dai poeti giamblici, elegiaci, lirici, dai comici e dai tragici, dai filosofi e dai dotti sapienti… fino ad Ateneo Naucrati (l’erudito egiziano del 2º-3º sec. d. C.)  [1]… ma, quasi sempre, si tratta di un pasto (deipnon) serale (anche dorpon la “cena”) in cui gli dei o gli uomini, senza eccezione, mangiano e usano le mani per portarsi il cibo alla bocca e provano un vero e proprio piacere (terpein) nel gustare le carni ed il vino e nello stare a banchetto (daite) perchè tutto è stato spartito e distribuito equamente (diaitos eise).[2] E da Omero sappiamo che il banchetto si  conclude sempre allo scendere delle tenebre: “E tutto il giorno, fino al calare del sole banchettarono[3] – “Essi alla danza tornando e all’amabile canto godevano, la sera buia scese”[4] o quantomeno termina con la fine del giorno (non cosi il simposio che dura – nei secoli successivi – anche tutta la notte).

simp

 “Il “mangiare con” è “condividere la parte debita” (dais è la parte che ciascuno ha in un pasto comune – cibi, bevande, parole, gesti, musica, danze, mimi, acrobati e buffoni … – ma anche quel che ti è dovuto di necessità dalla “sorte”, daitos ad esempio il posto a tavola, le parti che ti è permesso o devi mangiare, da quale coppa puoi bere e quanto … ).

L’avestico “aeta” (il greco è aisa, da cui aitia, la causa) significa “parte dovuta” nel senso di quel che ti tocca per inevitabilità. Non cieca fatalità, ma rigida necessità: la colpa è causa della pena o, per meglio dire, dall’effetto (pena) è possibile risalire alla causa (colpa). Diaitao (condurre l’agire in un certo senso) comporta l’aitia (la parte che ti è spetta e che a te si impone). Singolarmente, i due concetti di aitia (causa) e dike (giustizia) convergono verso la coppia monosemica di “ciò che a ciascuno spetta (dike) – la parte che da ciascuno si esige (aitia)”. Perciò il banchetto è un vero e proprio rito religioso in cui si amministra la giustizia ineluttabilmente sia per gli dei che per gli uomini.

L’Iliade si apre con tre conviti: uno, richiesto dall’accorto Odisseo, con la partecipazione di tutti gli Achei per pregare Apollo che ponga fine alla peste, un altro: il simposio degli dei che mette fine ad un litigio fra Era e Zeus e il terzo: per chiedere alla divinità il compimento dell’impresa. Tutti e tre finiscono con le stesse identiche parole:

“Quando finirono l’opera ed ebbero pronto il banchetto, mangiarono, né il cuore sentiva mancanza di parte uguale per tutti”[5] (dainont’ oude ti tumos edeuto daitos eises)

Vediamo il primo dei banchetti: dopo che l’indovino Calcante ha vaticinato che l’ira di Febo, trasformatasi in peste, è dovuta al maltrattamento del suo sacerdote da parte di Agamennone, ovvero Crise, al quale la figlia era stata rapita […] e dopo che Odisseo l’ha ricondotta al padre, celebrando una ecatombe per Apollo, gli Achei elevano una preghiera al dio:

E dopo che pregarono, gettarono i chicchi d’orzo,  trassero indietro le teste, sgozzarono, scuoiarono; tagliarono poi le cosce, le avvolsero intorno di grasso, ripiegandolo e sopra le primizie disposero sulle cataste il vecchio li ardeva e vino lucente versava sopra e i giovani intorno avevano forche tra le mani. E quando le cosce furono arse, mangiarono i visceri; fecero il resto a pezzi li infilarono su spiedi, li arrostirono con cura, poi tutto ritolsero. E quando finirono l’opera ed ebbero pronto il banchetto, mangiarono, e il cuor non sentiva mancanza di parte abbondante. Ma quando la voglia di cibo e bevanda cacciarono, i giovani coronarono di vino i crateri, ne distribuirono a tutti, versandolo in coppe; a libare; dunque essi tutto il giorno placarono il dio con il canto, un bel peana intonando, i giovani degli Achei, cantando il Liberatore godeva egli in cuore sentendo.[6]

Non si dice (espressamente come vedremo nell’Odissea) che le persone si lavano le mani prima e dopo il pranzo (che peraltro è l’uso comune), ma prima dell’ecatombe perfetta (per tutti gli dei ovvero senza dimenticare nessuno) l’esercito greco si lava completamente (“ordinò di lavarsi e si lavarono”  apolumainestai Iliade I, vs 313-314).

Esiodo (VIII-VII secolo a.C.), che nelle Opere e i giorni (che è ben lontano dalla vita degli eroi di Omero) ricorda l’età dell’oro “nei conviti [gli uomini] godevano … cari agli dei beati” (vs 115.120) ed “erano allora in comune banchetti, in comune convegni per gl’immortali Celesti, per gli uomini nati a morire” (Catalogo delle Donne, fr 82), ma non accenna al letto inclinato.

Il poeta di Ascra, in Beozia, fornisce una minuziosa esposizione della vita conviviale del suo tempo:

Non restare imbronciato al pranzo, cui molti convitati compartecipano quando il contributo è di tutti: tanto è il godimento e poco è il costo. Non versare sull’altare lo scintillante vino a Zeus, e neppure agli altri dei, senza aver prima lavato le mani; gli dei, infatti, non esaudirebbero le tue preghiere, ma le rigetterebbero indietro. [ … ] Durante gli splendidi banchetti degli dèi non tagliare col lucente ferro dalle mani le unghie dalla carne[ … ] Non prendere cibo e non lavarti in vasi non consacrati, perché ti porterebbero sofferenza[7].

E Aristofane (450-385 a.C) lo ripete secoli dopo:

“… stamane fatevi un bel bagno tu e i tuoi figli e venite da me che do un pranzo di nozze”[8] – “Ragazzo porta una una corona. E voi lavatevi le mani, Presto qualcuno porti dell’acqua”[9]

“L’acqua alle mani! Vengano le tavole
 in sala! A desco! Eccoci lavate 
le mani! Ora si fa la libagione…”[10]

e Platone (427–347 a.C.) nel Simposio:

Egli raccontava, dunque, d’essersi imbattuto in Socrate che veniva dal bagno ed aveva calzato i sandali, come soleva fare di rado, e d’avergli domandato dove andasse dopo essersi fatto così bello. Ed egli rispose: – A cena da Agatone. Ieri infatti riuscii ad evitare il banchetto per la vittoria, temendo la folla; ma promisi che il giorno dopo non sarei mancato. Per questo, dunque, mi sono abbellito: per andare, bello, da una persona bella.[11]

E finisce il dialogo con queste parole (parla di Socrate che finisce la nottata al simposio e rincomicia il giorno dopo al mattino con gli ateniesi):

“[Socrate] recatosi al Liceo e fatto il bagno passò come altre volte il resto della giornata finchè venne sera andò a casa a dormire”[12]

Senofonte l’eclettico storico, che fu discepolo di Socrate, scrive il suo Simposio, inaugurandone il genere letterario di cui – oltre a Platone – ne scrissero anche Aristotele, Aristosseno da Taranto, Epicuro, Luciano, Plutarco, Ateneo da Naucrati, Metodio, Macrobio …

Quindi arrivarono da lui, alcuni dopo aver fatto un po’ di ginnastica e dopo essersi spalmati d’unguento, altri dopo essersi fatti anche un bagno[13].

Viene sempre (e di continuo) portata acqua per lavarsi le mani e più tardi (in epoca storica) anche profumi per ungersi e corone per ornarsi la testa.

Anche gli ebrei  “Benedetto sei Tu, O Signore nostro Dio, Re dell’universo, che ci hai santificato coi Tuoi comandamenti, e ci hai comandato il lavaggio delle mani”. Filone cita Lev 22.6, che dice: “[Nessuno] mangerà le cose sante prima di essersi lavato il corpo nell’acqua …” Il Talmud afferma che Dio comandò agli ebrei di lavarsi le mani e riporta il testo della benedizione netilat yadaim.

E presso gli Etruschi, lo si vede dagli affreschi e su vasi, su lastre architettoniche, pitture tombali, cippi, stele, sarcofagi ed urne cinerarie, al banchetto ci si metteva sempre sdraiati sui divani, si era puliti e si lavavano più volte le mani.

In quanto al pranzo, d’altronde, si ripete che tutti provavano piacere (terpein) ossia si rilassavano dopo uno sforzo e gustavano il cibo, il vino, la musica, i canti, le danze e il discorrere con gli altri e, come accade al dio Apollo che “godeva in cuor suo sentendo” che gli eroi condividono il banchetto (dainumi daita) in uno stato di benessere totale cioè fisico e psichico.

E anche Zeus e gli altri dei, tornati da un banchetto di dodici giorni presso gli Etiopi (Iliade 423-425 e Odissea 422-2428) e naturalmente giunti a casa nell’Olimpo si siedono a convito avendo come musicista l’inventore  della cetra e come cantanti le Muse :

E tutto il giorno, fino al calare del sole banchettarono, e il cuor non sentiva mancanza di parte uguale per tutti, non di cetra sublime, ché la reggeva Apollo, non delle Muse, ché queste cantavano alterne, con voce armoniosa.[14]

Nell’Odissea si parla espressamente di lavacri prima della mensa. Presso i Feaci il re Alcinoo così si rivolge alla moglie Arete perché Ulisse prima del banchetto possa fare un bagno

E una caldaia mettetegli al fuoco e scaldategli l’acqua, ché lavato e vedendo bene in ordine i doni tutti, portati per lui dai Feaci gloriosi, l’ospite gusti il banchetto e goda udendo il cantore, lo questo calice mio, bellissimo, ancora gli dono, d’oro; perché ogni giorno di me ricordandosi, libi dentro la sala a Zeus e agli altri dèi”  Disse cosi, e Arète comandava alle ancelle di mettere al fuoco il tripode grande al piu presto. Quelle il tripode grande da bagno misero sul fuoco ardente, versarono l’acqua e sotto legna a bruciare portavano La fiamma abbracciò il ventre del tripode, l’acqua scaldava … In quell’istante la dispensiera l’invitò a farsi lavare, entrando nel bagno; con vivo piacere egli vide il bagno caldo In quell’istante la dispensiera l’invitò a farsi lavare, entrando nel bagno; con vivo piacere egli vide il bagno caldo … Quando l’ebbero, dunque, lavato le ancelle e unto d’olio,  gli misero indosso un bel manto di lana e una tunica, e uscito dal bagno, tra i principi già uniti a bere, andava[15]

e addiritura non solo una abluzione delle mani, ma un lavacro religioso di tutto il corpo come avviene a Lacedemone dove Telemaco e Pisistrato, giungono alla fine di un viaggio in biga  (“montava su un cocchio e prendeva in mano le redini poi frustò per andare”)

E come furono dentro la comoda sala, i mantelli deposero sui seggi e sui troni, e nelle vasche lucide entrati, fecero bagno. Poi, quando le ancelle li ebbero lavati e unti d’olio, indossarono tuniche e folti mantelli, e usciti dai bagni sui seggi sedevano[16].

Difatti, un attimo dopo il bagno, si lavano ancora le mani prima di mettersi a tavola perché faceva parte di un rito, un cerimoniale e una prassi che era talmente consuetudinaria da reputarla tanto un fatto di pragmatica per il padrone di casa e i suoi ospiti:

Poi li guidò neIla sala il biondo Menelao, e là sedettero sui seggi e sui troni. Venne un’ancella a versare lavacro da brocca bella, d’oro, su bacile d’argento, ché si lavassero: e trasse avanti la mensa pulita. Pane la dispensiera fedele venne a servire, molte pietanze offrendo, larga di quello che c’era[17]

Come sarà Itaca, qualche canto più in là, lo era anche Sparta dove Telemaco è ricevuto nella reggia di Menelao allo stesso identico modo:

Là accanto il Boetide tagliava e spartiva le carni,  versava il vino il figlio di Menelao glorioso: e tutti sui cibi pronti e serviti le mani gettarono[18].

E a questo punto dobbiamo prendere atto che i Greci non potevano avere dei problemi di igiene personale o pubblica a tavola; e vero che mangiavano con le mani, ma si lavano spesso e la frase “acqua alle mani” valeva come il nostro cambio delle posate. Che poi usassero cucchiai per i cibi liquidi, spiedi per la carne e gli scalchi facessero delle portate abbastanza piccole da non dovere usare il coltello per poterle mettere in bocca, è naturale! e i cibi confezionati e giá tagliati venivano serviti su piatti di vario tipo (di ceramica o di metallo), anche le foccacce, e presi con le mani (che poi si lavano).


Note

[1] Ateneo di Naucrati, I deipnosofisti. I dotti a banchetto. Prima traduzione italiana commentata su progetto di L. Canfora, introduzione di C. Jacob, 4 volumi, Roma, Salerno Editore, 2001. I “Dotti a banchetto”, sono il traguardo di una consuetudine colta, che nel Simposio di Platone e di Senofonte annovera i suoi modelli più ragguardevoli. “E ancora, il disegno generale dell’opera vuole imitare la sontuosa abbondanza del banchetto, e l’articolazione del libro rispecchia il menu servito nel corso della trattazione. Tale dunque si presenta il sopraffino banchetto di discorsi messo in scena da Ateneo, che del disegno generale dell’opera è il mirabile ideatore, e che, superando se stesso, come gli oratori di Atene, con l’ardore della sua eloquenza s’innalza di grado in grado attraverso le parti che si succedono nel libro” (I 1, 1a–c)

[2] Il verbo daiomai, spartire [da cui daite, banchetto; daitros, lo scalco, daimon, pari a un dio …] o anche dainumi che significa sia condividere che distribuire giustamente.

[3] Omero, Iliade Il. 600 tr. it. di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino, 1965

[4] Omero Odissea. I, 421-422 tr. it. di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino, 1963

“… e il sole s’immerse e scese la tenebra. … Ma su, tagliate le lingue. e mescete il vino, sicche a Poseidone e agli alti immortali, avendo libato, pensiamo al riposo: è ormai l’ora. Già fugge la luce sotto la tenebra, piu non conviene stare a sedere al banchetto dei numi, ma andarsene”. Odissea. III. 329-336l. “Lavate le mani, prepararono ricco banchetto. Tutto quel giorno, fino al calare del sole, sedemmo a· goderci carni infinite e buon vino. Come il sole andò sotto e venne la tenebra, allora dormimmo sul frangente del mare Odissea, 182-186

[5] Omero, Iliade I 467- 468 -I 600  II 450-451 tr. it. di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino, 1965

[6] Omero, Iliade I 458-474

[7] Esiodo, Opere e i giorni, 722-726,742-745, 748-749

[8] Aristofane, Gli uccelli, trad. di A. Grilli. BUR. Milano, 2006 vs133

[9] Aristofane, Gli uccelli vs 460

[10] Aristofane, Le vespe, trad, Ettore Romagnoli Casa Editrice Bietti, Milano, 1933.

[11] Platone, Simposio II, 1-9, trad G. Calogero, Laterza, Bari, 1996

[12] Platone, Simposio XXXIX. 10

[13] Senofonte, Simposio, trad A.Giovannelli, La Vita Felice, Milano, 2003

[14] Omero, Iliade Il. 600-604

[15] Omero Odissea. VIII, 425-455

[16] Omero Odissea. VIII 46-51 – XVII, 85-90

[17] Omero Odissea XVII, 91-95

[18] Omero Odissea. XV, 139-140


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